lunedì 28 settembre 2015

Arriva "San Miché" patrono dei traslochi


San Miché, patrono di Pigna, di Mentone e di vari altri centri della nostra zona, è un santo assai popolare. In passato, poteva essere considerato un po' il protettore degli sfrattati, nel senso che chi veniva cacciato di casa doveva raccomandarsi a lui. Infatti, secondo le consuetudini di allora, i contratti di affitto delle case e dei terreni scadevano il 29 settembre, giorno della sua festa. Contratti che, spesso, non venivano rinnovati ed allora non restava che "fà San Miché" cioè caricare su un carro le povere masserizie e gli attrezzi agricoli e fare trasloco.
Curioso notare come, in certe zone della Lombardia, ad esempio, il detto si mutava in "fà San Martin" poiché lì i contratti scadevano invece l'11 novembre, festa appunto di San Martino, come del resto avveniva anche in Piemonte. A questo proposito, è rimasta celebre la frase che Vittorio Emanuele II sembra abbia rivolto ai suoi soldati, il 24 giugno 1859, durante la battaglia di San Martino: "Figlioli, o prendiamo San Martino o gli austriaci San Martino ce lo fanno fare a noi!".
Che San Michele fosse il santo dei traslochi, tanto da diventarne sinonimo, è invece attestato in Provenza con le forme Sant-Michèu/Sant Miquèu. E, a questo proposito, Mistral riferisce di una cuoriosa forma di superstizione alla quale nessuno osava sottrarsi. Chi faceva trasloco, entrando nella nuova casa, doveva introdurre per prime cose: la saliera, i fiammiferi e un mazzetto di erbe odorose.
Tornando al San Miché di casa nostra, va detto che il giorno della sua festa, il 29 settembre, coincideva con il cambiamento del regime delle acque: da San Giovanni (24 giugno) fino appunto a San Michele esse erano adibite ad uso irriguo, mentre i restanti mesi erano da usarsi per il funzionamento di mulini e frantoi.
E, per restare in tema di acque, ma piovane questa volta, non possiamo passare sotto silenzio il proverbio "E aighe de San Miché, o chinze giurni avanti o chinze giurni inderré". Perché, all'inizio dell'autunno, fra la fine di settembre e i primi di ottobre, non mancano mai le piogge ed è tempo di porsi al riparo: "A san Miché ciacün se retira int'u sou carté".


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996, pag 71


mercoledì 16 settembre 2015

Con ciüma e làpisse si ritorna a scöra


In settembre, le vacanze finiscono ed è tempo di scöra. Tornano di scena maistre, maistri e sculari e, per la nostra piccola indagine dialettale, ci fermiamo qui perché la scuola di un tempo era soprattutto, e per la maggior parte dei bambini, esclusivamente quella elementare. Quando andava bene, perché non tutti gli alunni riuscivano a compiere i cinque anni dell'obbligo scolastico. Essi portavano u scaussà, il grembiule, nero per i maschi e banco per le femmine, mentre il colletto, a volte inamidato, era bianco per tutti ma il fiocco di seta, a gassa, era azzurro o rosa, a seconda del sesso.
Niente zaini firmati, ma modeste sachéte di fibra o di stoffa, a volte cucite dalle madri stessa. Dentro, libri, caderni, e portaciüme, i portapenne di legno incavato col coperchio scorrevole. Per scrivere, si usavano ciüma, ciümin, làpisse e güssalàpisse, penna, pennino, matita e temperamatite. Del tutto inesistenti le biro; soltanto qualche privilegiato poteva permettersi la penna stilografica. Sul banco, un oggetto completamente sconosciuto agli scolari di oggi: u caramà, il calamaio di vetro con la sua piccola riserva di inchiostro. Non vi era scolaro che, diventato adulto, non raccontasse di averlo tirato alla maestra. Un altro oggetto indispensabile, la carta sciüganta, la carta assorbente, onde evitare le macchie biasimate dagli insegnanti.
Ma, nelle cartelle e nelle tasche, soprattutto in quelle dei maschi, c'era sempre una scorta di baline e cartine, biglie e figurine che, se scoperte dalle maestre, finivano inesorabilmente chiuse a chiave nei cassetti della cattedra da dove sarebbero uscite per essere riconsegnate ai legittimi proprietari, se tutto andava bene, soltanto alla fine dell'anno scolastico.
Il carattere dialettale di queste note ci offre l'occasione per parlare brevemente dei rapporti scuol-dialetto negli anni che furono. Rapporti sempre piuttosto burrascosi perché scopo della scuola era essenzialmente quello dell'insegnamento della lingua italiana e quindi il dialetto veniva considerato come la “malerba” da estirpare, naturalmente.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996, pag 68

venerdì 11 settembre 2015

Sciütina e secaressa

...e se le previsioni sono giuste, a breve pioverà: 
speriamo con garbo e abbondanza per mettere fine alla sciütina...


Ogni tanto leggiamo sui giornali o vediamo alla televisione, fra le tante calamità naturali che si abbattono sul nostro pianeta, anche casi di tremenda siccità che devastano i territori di interi paesi, specialmente in Africa. E certi anni, l'estate porta anche nella nostra regione uno stato di siccità, non mai grave, per fortuna, come quelli di cui si diceva prima.
Noi, non certo per insensibilità di fronte a questi gravissimi problemi, ci occuperemo come sempre del risvolto dialettale della questione. La siccità, dalle nostre parti, prende il nome di sciütina, un termine che (concediamoci, una volta tanto, il lusso di una parola 'difficile') è un deaggetivale, cioè un sostantivo che deriva da un aggettivo, nel caso specifico da sciütu, asciutto.
La nostra sciütina ha comunque degli illustri antenati, come l'italiano antico 'asciugaggine' e degli altrettanto nobili parenti come il provenzale eissuchino e il piemontese suitin-a. Comunque la sciütina, come voce dialettale, non sembra andare oltre l'area imperiese con la punta di Alassio dove è scittina mentre a occidente la sciütina è tale nel Principato di Monaco.
Con tutto questo, la nostra sciütina può già essere considerata un probabile neologismo, cioè una parola relativamente recente, rispetto alla più arcaica secaressa che troviamo ancora in uso, ad esempio, a Mentone. Un termine derivato dal tardo latino seccaritia che ha poi dato origine al provenzale secaresso, all'italiano antico seccariccio e al francese secheresse. Ma l'elenco dei vocaboli riguradanti il fenomeno della siccità non è ancora finito. Girolamo Rossi, nel suo Glossario medievale ligure, riporta anche la voce sechagna che definisce 'tratto di mare o di fiume a secco' e si riferisce al letto dei corsi d'acqua nei quali la terra si screpola per via della siccità, appunto.
In chiusura, la consueta nota sul linguaggio dialettale che come si sa è sempre ricco di metafore. Chi, guardando il prorpio portafoglio, lo vedeva desolatamente vuoto, non poteva fare a meno di esclamare: «Che sciütina!» come a dire 'che miseria!'


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996