mercoledì 16 settembre 2015

Con ciüma e làpisse si ritorna a scöra


In settembre, le vacanze finiscono ed è tempo di scöra. Tornano di scena maistre, maistri e sculari e, per la nostra piccola indagine dialettale, ci fermiamo qui perché la scuola di un tempo era soprattutto, e per la maggior parte dei bambini, esclusivamente quella elementare. Quando andava bene, perché non tutti gli alunni riuscivano a compiere i cinque anni dell'obbligo scolastico. Essi portavano u scaussà, il grembiule, nero per i maschi e banco per le femmine, mentre il colletto, a volte inamidato, era bianco per tutti ma il fiocco di seta, a gassa, era azzurro o rosa, a seconda del sesso.
Niente zaini firmati, ma modeste sachéte di fibra o di stoffa, a volte cucite dalle madri stessa. Dentro, libri, caderni, e portaciüme, i portapenne di legno incavato col coperchio scorrevole. Per scrivere, si usavano ciüma, ciümin, làpisse e güssalàpisse, penna, pennino, matita e temperamatite. Del tutto inesistenti le biro; soltanto qualche privilegiato poteva permettersi la penna stilografica. Sul banco, un oggetto completamente sconosciuto agli scolari di oggi: u caramà, il calamaio di vetro con la sua piccola riserva di inchiostro. Non vi era scolaro che, diventato adulto, non raccontasse di averlo tirato alla maestra. Un altro oggetto indispensabile, la carta sciüganta, la carta assorbente, onde evitare le macchie biasimate dagli insegnanti.
Ma, nelle cartelle e nelle tasche, soprattutto in quelle dei maschi, c'era sempre una scorta di baline e cartine, biglie e figurine che, se scoperte dalle maestre, finivano inesorabilmente chiuse a chiave nei cassetti della cattedra da dove sarebbero uscite per essere riconsegnate ai legittimi proprietari, se tutto andava bene, soltanto alla fine dell'anno scolastico.
Il carattere dialettale di queste note ci offre l'occasione per parlare brevemente dei rapporti scuol-dialetto negli anni che furono. Rapporti sempre piuttosto burrascosi perché scopo della scuola era essenzialmente quello dell'insegnamento della lingua italiana e quindi il dialetto veniva considerato come la “malerba” da estirpare, naturalmente.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996, pag 68

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