Erano passati un po’ di anni, ma
nulla era cambiato. Spesso, nella vita, si vivono dei periodi di intensa
frequentazione e poi ci si allontana: nel ritrovarsi e riprendere i contatti,
la confidenza torna assolutamente spontanea come allora.
Gianì aveva sempre quel volto di
un tempo, non aveva permesso agli anni di scalfirlo. Rosea, fanciullesca, umile,
diversa da quel cliché del luogo di appartenenza, si muoveva con leggerezza,
grazia e operosità al punto che, osservandola, sembrava di ascoltare una musica.
C’era una luce lieve ma calda,
attorno a lei, che rendeva davvero gradita la sua immagine. Il suo mondo era
pulito, organizzato, ordinato e fiorito. Nel suo incessante, ma leggero
dinamismo, riusciva a tener dietro a tutto. Anche la sua abitazione, come la
sua vita, si articolava tra modernità e
passato, che convivevano nella massima linearità. Era quasi impossibile
immaginare tanta facilità a tenere assieme tanti tasselli di differente natura:
nell’ambiente abitativo, l’impatto con il restauro offriva l’agiatezza di un
vivere quotidiano e moderno che includeva, al tempo stesso, al suo interno, spazi
ed anfratti del passato, come cantina, ripostigli, legnaia, lavanderia e cucina da lavoro, senza che intaccassero il «nuovo» e permettendo un’agevole possibilità di
muoversi e operare in assoluta disinvoltura.
E Gianì de Fiandre si muoveva in
quegli spazi come una melodia.
Anche dentro di lei la vita si
svolgeva allo stesso modo. La sentivo attraversare il suo animo in preda alle
più ripide paure e al tempo stesso alla tenacia di chi, comunque, non demorde.
La sua leggerezza corporea conviveva con fardelli interiori di profondo
travaglio, che tuttavia non intaccavano la sua reale natura. Era Gianì de Fiandre,
sì “de Fiandre”, perché ricordava quelle donne del nord della Francia sempre
immerse nelle loro vicende lavorative, familiari e di donne che non trovano mai
tregua, ma che si esprimono con un ordine attorno a sé dotato della migliore
grazia.
I fiori, i profumi, l’ordine, la
pulizia, la gentilezza ne erano la dimostrazione: non erano molte le persone
che sapevano rimandare tale immagine, ma lei sì. Era impossibile non volerle
bene, impossibile non accogliere le sue preoccupazioni e offrirle tutto l’aiuto
di cui aveva bisogno in quel momento; Gianì de Fiandre, quando si era sposata,
aveva attorno al volto, legata sotto il mento, una coroncina di fiori che non
mentiva sulla natura della sua anima.
La sua vita poteva essere
sembrata facile, ma non lo era stata per niente. Per molte donne, prima del
matrimonio, il tempo era trascorso in tribolazione, ma per lei fu il contrario:
il rapporto col padre non fu del tipo “conflittuale” e gli anni più difficili
le si presentarono dopo.
La costruzione della sua vita,
della sua famiglia sembravano fossero state una passeggiata se guardavo
inconsapevole al presente, ma sapevo invece quale corsa ad ostacoli Gianì aveva
dovuto affrontare.
E proprio per il peso, le ansie,
la quantità di difficoltà, le fatiche, le incomprensioni, le stanchezze, le
paure, i drammi che Gianì de Fiandre aveva portato su di sé, mi sorgeva
spontaneo pensare che ci dovesse essere una forma di espiazione che permetteva
agli esseri umani di illuminarsi, essendo capaci di così tanta sopportazione al
fine di perseverare per il bene altrui. Soltanto la presenza di una luce
interiore poteva sostenere e dare forza in tutti quei momenti che le erano
stati davvero insopportabili e di grande sofferenza e che lei tuttavia aveva
superato soprattutto senza ammalarsi.
Aveva cercato anche la fede, con
tanta forza, quando aveva sentito di non farcela proprio più, aveva pregato
devotamente tanto e ne aveva ricevuto beneficio. Ma c’era anche una parte di
lei che sprofondava spesso nella disperazione e sfogava nella rabbia, nella
bestemmia quasi a cercare uno sfogo liberatorio dai demoniaci momenti in cui la
vita la ricacciava.
Io la capivo. Ci assomigliavamo;
lei, però, era migliore. Sentivo qual era la forza del suo animo, era la stessa
che nutrivo anch’io, era la forza dell’amore, quell’amore che si deve misurare
con ogni difficoltà, con ogni fatica, a volte dura e cieca, che non lascia un
minimo di spazio ai «perché» e che troppo spesso non riesce a trovare un minimo
di ragionevolezza in ciò che accade. E di fronte a quel piegarsi agli eventi e
alla sofferenza, tornava la rabbia di dissacrare il tutto, di indemoniarsi
dentro e fuori per ritrovare quell’autentica forza nell’amore e vincere la
battaglia e regalare al mondo tutta la bellezza possibile.
L’avevo ritrovata intatta, a
distanza di anni, rispetto alla sua vera natura. Incontaminata. Migliore. Bella.
Mi aveva ridato la forza di
accedere a quella dimensione che non tutti mi permettono di condividere, perché
Gianì de Fiandre era unica.
Ero anche andata a salutare sua
nipote che lavorava in un ristorante «in» in uno sperduto paesino
dell’entroterra ligure. Ero seduta sulla scala di una casa mentre le parlavo e
la donna che ne uscì dalla porta, vedendomi di schiena, mi scambiò per la Gianì di quel paese. Si era
scusata per essersi sbagliata, ma non potevo farle comprendere fino in fondo
quale regalo mi avesse fatto di avermi chiamata con quel nome: e tutto accadde
lo stesso giorno in cui mi ero recata, al mattino, nella bella casa ordinata,
pulita e con tanti fiori attorno.
Ci sono cose nella vita che vanno
oltre alla comprensione della ragione. Non hanno bisogno di spiegazioni, perché
«sono» in quanto tali. E’ una fortuna, nella vita, poter incontrare anime in
cui specchiarsi in maniera così chiara. Qualcuno li definisce livelli di
santità, di purezza assoluta dell’anima, di complementarietà dell’anima. Forse
non è neppure necessario affannarsi per cercare una definizione, è già tanto
incontrare le persone con cui riuscire a viverle. Hanno del magico, del
mistico, del folle, perché permettono di toccare con mano quella perfezione
dell’essere a cui si aspira e che così raramente si raggiunge. Ma càpitano, per
fortuna càpitano.
Con Gianì de Fiandre accadeva
così ed io respiravo nella luce dell’anima sacri momenti di beatitudine e
grazia.
Pia – 13 giugno 2010