lunedì 26 ottobre 2015

Aforisma di Alda Merini


Beato chi ne è capace già in giovane età, in ogni caso diventa una necessità in età matura:

Mi 
piace 
chi sceglie
con cura, 
le parole da non dire.


Alda Merini (1931 - 2009)

Preso da Facebook e trascritto qui affinché rimanga. Là tutto scorre e se ne va, qui si possono ritrovare le cose, almeno quelle più importanti.


venerdì 23 ottobre 2015

Una luce per "Le parole e la notte"

Francesco Biamonti (1928 - 2001)

[...] Piuttosto che portare torpidità e oscurità preferisco alonare le parole di un certo silenzio. D'altra parte sono proprio le parole filtrate dal silenzio, dalla notte, quelle che io cerco di adoperare, e credo di aver adoperato in questo senso tutta una coerenza stilistica per le soluzioni dialogiche e per le soluzioni descrittive.
Nei dialoghi cerco di attenermi all'essenzialità, alle parole che muovono l'essere e che sono veramente parole, non chiacchiera. In francese si dice mot per indicare le parole quotidiane, mentre parole indica già un'invenzione poetica, un'essenzialità e premeditazione più profonde. Bene, io ho cercato di utilizzare sempre delle paroles, mai dei mots, delle chiacchiere: la parola che sia veramente la creazione dell'essere; e la concezione dell'artista come pastore dell'essere, che non narra cose sociologicamente estese, ma narra per intuiti poetici la psicologia del profondo dell'animo umano, portandola il più possibile in superficie. E' il rischio della scrittura. D'altra parte ogni scrittura è un azzardo; si sceglie un tipo di scrittura e se ne escludono molti altri, assumendosene la responsabilità.
[...] L'azzardo si deve quindi correre, e io l'ho sempre corso, col rischio di arrivare a un pubblico rarefatto, con la mia scrittura, perché non è adatta alle grandi masse; però non posso piegarla a esigenze di ascolto maggiore, perché mi sembra che il nostro sia un mondo ormai in cui bisogna prendersi delle responsabilità. Bisogna scrivere a costo dell'impopolarità, in un mondo impregnato dell'antica poesia che fa la dignità delle civiltà mediterranee, italica, francese.


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, Torino, 2008. pag. 93 e 94


martedì 13 ottobre 2015

Maiolino, monaco di luce


Colpo di dadi gettato fra le ombre della sera, in circostanze eterne, alla ricerca di ciò che fonda l’esperienza visiva, la pittura di Maiolino plana con raffinato rigore sul magma dell’esistenza.
Trasparenze, intrecci, composizioni. Una spietatezza, la mano del destino, il “rappel à l’ordre” di una ronda segreta, prova quest’uomo chino sugli effetti della luce e dell’ombra. Reazione calcolata alla solarità mediterranea, tentativo antico di racchiuderla dentro un corteo di essenze, di intuizioni eidetiche, come a spogliare la terra di ciò che non fa parte della sua frammentarietà astrale.
L’ordine stesso di questo mondo si alza nella sua luce, procede in una geometria scarna, dove le cose vibrano per assenza, in una nostalgia appena suggerita. Pittura di lavorio e di suggestioni intorno a una struttura viva e di cenere.
Un severo, metodico spirito suscita l’idea di un aldilà dell’armonia naturale, di cui la natura è solo un riflesso dalle forme imprecise. L’ombra secolare di un’icona di Bisanzio accompagna la ricerca di un’elementare verità pittorica.
Sono tanti i nomi che potrei fare di questi monaci della luce, una sorta di compagnia di templari e di giansenisti me ne astengo di proposito. Attorno a loro si addice un alone di silenzio.


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi Editore, Torino, 2008, pag. 210 - Pubblicato sul Bollettino della Comunità di Villaregia, 1994


domenica 4 ottobre 2015

Civezza

Civezza (Im)

"Che volete di più? Paese in mezzo agli ulivi e alto sul mare; per arrivarci si passa in una sinfonia di tronchi, di rami: l'orizzonte si apre, oltre che sul mare, su altri paesi dai nomi bellissimi, Pietrabruna, Boscomare, su crinali che se ne vanno lontano, come melodie su flutti d'argento; le case e le piazzette sono antiche, di un'intimità raggrumata nel vento. C'è un che di sospeso, di dolce, di lieve, una vertigine che viene dalla luce in ascesa.
Più su del paese, più su degli ulivi si stende la macchia mediterranea con strade polverose e chiese e sentieri e ovili rosi dai cespugli. La grazia, che sotto era fragile, si fa rude, si accorda fuori del tempo alla forza del mare. Poiché le prime alture, bisogna pur dirlo, sono le più indifese, di un equilibrio che se si tocca si rompe.
Collocata su un costone, arenatavi come una barca, Civezza è fragile e leggera, una nuvola che vi si accosti sembra trascinarla. Basta un palazzo sghembo per offenderla, e una macchina che passi in un vicolo disturba i morti. E' un paese cha ha bisogno di vivere intatto come un ricordo.
Di che sia frutto questa bellezza rimane un mistero: vicoli e cascate di ulivi non bastano a spiegarlo. Che venga dal fatto che ha, sotto, la luce instabile del mare e, sopra, quella più ferma di un paesaggio montano?"


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, G. Einaudi editore, Torino, 2008, pag. 156



giovedì 1 ottobre 2015

Il restauro è ultimato e l'arcano in parte svelato...

U Santétu de Cabanéte restaurato

Tutto cominciò a maggio del 2014, un'iniziativa partita dal basso, all'osteria: Oscar Rossi si fece portavoce e sostenitore della causa. Sembrava cosa da poco, bastavano dei volontari, del materiale e mettersi all'opera. Le cose, però, non si rivelarono così semplici, per cui l'Associazione culturale A Cria di Vallebona prese in carico il "problema" e affrontò le trafile necessarie per arrivare al dunque, come raccontai, a suo tempo qui.

Prima del restauro

Di edicole votive, in dialetto Santéti, a Vallebona, come in tutti gli altri paesi, ce ne sono parecchie. Alcune sono in buono stato, altre sono state mantenute e riparate da privati, una è stata demolita per far passare una strada (e non dico chi ne è responsabile), un'altra è crollata. Insomma: siamo in cammino per salvare il salvabile.

(Cliccando sulle foto è possibile ingrandirle)

Il Santétu de Cabanéte però, è il più particolare di tutti: ci siamo domandati da dove poteva provenire questa architettura, abbiamo chiesto alla gente del paese se ne conosceva la storia, abbiamo contattato, tramite i social net work, professori di ogni genere per cercare di definire questo manufatto.


La restauratrice Raffaella Devalle ha iniziato il suo accurato lavoro attenendosi rigorosamente alle regole previste e nei tempi stabiliti ha portato a compimento l'opera. Anche lei era molto incuriosita e un bel giorno mi dice che un signore, che passa spesso da quel punto, le raccomanda di "aggiustare bene u Santétu". 


Solo osservando bene, si possono notare certi particolari: in queste foto, ad esempio, si vede quanto è sconnessa la base che regge la lastra di ardesia su cui poggia il tutto, lastra che col tempo è pure "scivolata" perdendo la sua posizione centrale e simmetrica.


Raffaella procedeva con solerzia: Flavio Guglielmi ha provveduto il materiale per il basamento su cui appoggiare il suo piccolo ponteggio; l'architetto Tullio Gugole ha seguito giorno per giorno i lavori e anch'io facevo i miei sopralluoghi per vedere il work in progress. E quel signore, ogni volta che passava, aggiungeva qualche informazione...


Un giorno le ha portato due vecchi coppi, dicendo a Raffaella che, a suo tempo, erano posti sul retro del Santétu. Purtroppo, non avendo fotografie che possano testimoniare l'affermazione, per regola non si può aggiungere nulla all'esistente e le regole vanno rispettate. Capisco, dalla descrizione di Raffaella, che il "signore" in questione è Luciano Guglielmi e, benché a volte passano mesi senza che io lo veda, dopo mezz'ora il caso ha voluto che lo incontrassi.


Luciano de Vergì sa qualcosa del Santétu, è l'unico che sa dirci qualcosa. Un suo prozio, fratello di Lisà, sua nonna materna (Lisà era esattamente uguale alla nonna delle favole!), morto cinquantenne nel 1927, era un personaggio estroso, insomma, un artista. Costruì lui quel manufatto, nei primi decenni del Novecento. Si chiamava Avustì, al secolo Viale Agostino e faceva delle sculture in legno di noce che ancor oggi Luciano si chiede come abbia potuto realizzarle. Esiste poi un libretto che spiega il significato delle opere scultoree e la mia speranza è che, su quel libretto, ci possa essere anche qualche riga sul significato del Santétu. 


Luciano, classe 1940, ricorda di averci sempre visto la statua di Sant'Antonio da Padova ed infatti la proprietaria dell'abitazione adiacente, Viale Graziella, l'aveva tolta e conservata quando si era resa conto della fatiscenza del Santétu, nonostante i numerosi tentativi di intervento che alcuni, nel tempo, avrebbero voluto apportare, ma non fu loro permesso se non interpellando con i permessi le Belle Arti, cosa che per loro si rivelò complicata.

In effetti quella zona apparteneva (ed in parte appartiene ancora) alla famiglia Viale, ovvero i miei antenati. Che il manufatto non richiami esattamente elementi cristiani, non mi stupisce. Esistono documenti che attestano un processo per direttissima, inflitto loro dalla Chiesa, ad alcuni miei avi perché "sorpresi a consegnare dell'olio a San Biagio della Cima in giorno di festa"., sorpresi dunque "a lavorare". L'accusa fu di "eresia" e chissà che non ci sia qualche legame con quel manufatto un po' massonico e arabeggiante, insomma, una sorte di "protesta". Chissà. E chissà se Luciano troverà altre preziose informazioni...
Intanto son ben contenta che sia restaurato e che ospiti proprio Sant'Antonio da Padova: destino vuole che io sia nata proprio il giorno della sua festa!