sabato 30 giugno 2012

Il look di Philippe Daverio

Philippe Daverio

Gli habituès della trasmissione Passepartout ieri, o de Il Capitale oggigiorno, conoscono bene Philippe Daverio, eclettico personaggio che cattura l'attenzione non solo per la sua bravura, ma anche per il suo modo di vestire.


Nella flemmatica esposizione degli argomenti oggetto delle sue trasmissioni, Daverio ci accompagna sempre in viaggio nell'arte, nella storia, nella filosofia, nell'architettura e quant'altro con grande intelligenza, dandoci vere e proprie lezioni di cultura e facendoci apprezzare cose che spesso sarebbero indigeste se non supportate dal suo sapere.


La prima considerazione che sorge spontanea osservando il suo look è quanto la forza della sua personalità superi di gran lunga i variopinti abiti che indossa. Non è da tutti abbinare colori, righe, pois, quadretti, cappelli, papillon, giacche e gilet coloriti e portarli con tanta disinvoltura. Tuttavia la percezione dell'insieme non è mai sgradevole...

 

Personalità e cultura sono un binomio dirompente, quasi come dire che ingenerano una forza che travalica regole e cliché e Daverio ne è un esempio per eccellenza.


In effetti diventa quasi "strano" quando lo si vede abbigliato in modo "normale", quasi venisse meno la sua completezza...


Ovviamente è risaputo che in un'epoca  di televisione-spazzatura, la sua presenza, la qualità delle sue trasmissioni e la coreografia dei suoi abiti siano, per il pubblico che lo segue, un settimanale regalo sul finire del pranzo domenicale.


Da non dimenticare, poi, i primissimi piani o addirittura i dettagli che le telecamere effettuano sul suo viso durante la seria esposizione degli argomenti: anche questo contribuisce a rimarcare quanto sta esponendo, per avvalorarne ulteriormente il significato. 
Quel binomio personalità-cultura, insomma, è proprio vero che gli può permettere qualsiasi cosa!


giovedì 28 giugno 2012

Meriggiare pallido e assorto



Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.



Eugenio Montale (1896 - 1981)

martedì 26 giugno 2012

Il minestrone


Qualcuno potrebbe pensare che la foto di questa stufa a legna sia una reminiscenza di un tempo passato, cui dedicare pensieri nostalgici, ricamati di ricordi piacevoli legati alla vita contadina.
In realtà è stata scattata ieri sera, quando sono giunta in campagna da un amico che aveva preparato cena per i compagni di una vita pressoché trascorsa insieme.
Il menù prevedeva, tra le altre cose, un ricco minestrone di verdure del suo orto, che per almeno 7 ore ha cotto tranquillamente sulla stufa a legna, nella preziosa pentola con i manici di ottone della nonna.


Inutile dirvi che era buonissimo. Il contesto mi ha stuzzicato alcune riflessioni, anche perché l'amico in questione ha avuto, nel corso degli anni, l'abilità di "attrezzare" più cucine, sia in casolari di campagna, sia all'aperto, sia nella propria moderna abitazione, sia nel centro storico del paese. E' un suo vero e proprio talento e in ogni circostanza è sempre riuscito a trasmetterci dimensioni molto diverse tra loro, sempre accompagnate dalla sua preziosa ospitalità. Quella di ieri è stata una situazione retrò assai inaspettata, un vero e proprio ritorno ai primordi in un'epoca in cui si tende a perfezionare i dehors in ambienti iper-perfetti, con tanto di forni prefabbricati, barbecue, sedie a sdraio e prati all'inglese.
Il tutto rientra nella libertà e nel possibilismo dei tempi moderni, non scevro tuttavia di profonde contraddizioni. Detto questo, a pensarci bene, ne consegue comunque un dubbio: a quale realtà apparteniamo?


domenica 24 giugno 2012

Romanzo mondo


Nell'ambito degli appuntamenti dell'ottava edizione degli Itinerari di letteratura organizzati dall'Associazione Amici di Francesco Biamonti, si è svolta ieri a San Biagio della Cima la presentazione del libro Romanzo mondo. La letteratura nel villaggio globale di Vittorio Coletti.
La prima parte di questa riflessione (è così che la definisce l'autore stesso) ha carattere storico descrittivo e mette in evidenza come i grandi romanzi del passato, saldamente radicati nel territorio e nella lingua locale, avessero la grande capacità di attrarre un pubblico internazionale: il forte radicamento al luogo in cui era ambientato il romanzo apriva tuttavia ai temi di valore universale. 
Nella seconda parte l'attenzione è rivolta all'oggi, seguendo un'evoluzione  lunga e complessa, difficile da articolare. Coletti non esita ad affermare che l'aspetto geografico si è molto indebolito, i luoghi diventano ibridi, dando vita ad un fenomeno che definisce di trans-nazionalità: paese di origine e di destinazione diventano la stessa cosa. 
Secondo quanto scrive l'autore nella premessa, "mondo" sta per quei romanzi e per quegli autori del Novecento e contemporanei che sono stati, in un primo tempo, percepiti come non appartenenti ad una cultura nazionale specifica e quindi ricevibili da tutte le culture: opere molto traducibili che ambiscono al mercato [...]. Questo non significa che sia solo letteratura di consumo, anche se quella destinata al consumo mondiale ne è l'espressione più immediata, semplice e percepibile [...].
Nonostante la forte tendenza alla globalizzazione intesa come allineamento di culture ed economie, continuano ad esserci le differenze tra un posto e l'altro, tra una lingua e l'altra, tra le persone, le tradizioni, i mercati: i romanzi, oggi, raccontano la storia del mondo culturalmente unificato, per denunciarne il prezzo altissimo, le insostenibili contraddizioni e i dolori nuovi che comporta.
Raccontare il mondo, dunque, che diventa unico a caro prezzo.

venerdì 22 giugno 2012

Il pensatore

Il pensatore - Auguste Rodin (1840 - 1917)

Un giorno, un pensatore indiano fece la seguente domanda ai suoi discepoli: "Perché le persone gridano quando sono arrabbiate?"
"Gridano perché perdono la calma" rispose uno di loro.
"Ma perché gridare se la persona sta al suo lato?" disse nuovamente il pensatore
"Bene, gridiamo perché desideriamo che l'altra persona ci ascolti" 
replicò un altro discepolo
E il maestro tornò a domandare: 
"Allora non è possibile parlargli a voce bassa?"
Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il pensatore.
Allora egli esclamò:
"Voi sapete perché si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati?
Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto. Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare. Quanto più arrabbiati sono tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l'uno con l'altro.
D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate?
Loro non gridano, parlano soavemente. E perché? Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola. 
A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano solamente sussurrano. E quando l'amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi. I loro cuori si intendono. È questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano."
In fine il pensatore concluse dicendo:
"Quando voi discuterete non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare di più, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare."

Mahatma Gandhi (1869 - 1948)

lunedì 18 giugno 2012

Del mondo contadino

 
Contadino lucano

"Quando, nei primi giorni, mi capitava di incontrare sul sentiero, fuori dal paese, qualche vecchio contadino, che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi e mi chiedeva: - Chi sei? Addò vades? - Passeggio, - rispondevo, - sono un confinato. - Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male -. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.
Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono avere culto fra questa argille, dove regna il lupo e l'antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello delle bestie e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l'uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. E' un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti".

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Giulio Einaudi Editore, Torino 1945, pag. 78


sabato 16 giugno 2012

A Levaldigi


"Lunga e diritta correva la strada" attraversando i vari paesi che da Cuneo si incontrano in direzione Torino. Alla periferia di Levaldigi spicca l'aeroporto internazionale, che dà un tocco di super-modernità a questa zona assai provinciale della "Granda". Il paese, tuttavia, ha un aspetto statico, come se il tempo, lì, si fosse fermato. Ad avvalorare la sensazione contribuisce questa rivendita di tabacchi, sia per l'insegna esterna, sia per come si presenta al suo interno.


Accanto all'entrata, è posta la lapide ai caduti e ai reduci della Prima Guerra Mondiale di Levaldigi. I fili penzolanti, che alimentano i due fanali laterali all'entrata della rivendita, svolazzano con abbondante lunghezza, incuranti delle vigenti regole degli impianti a norma. Naturalmente entro. Anche all'interno si ripropone un insieme similare all'aspetto esterno. L'olfatto è subito colpito da un forte odore di bollito, anche se sono appena le undici del mattino. C'è il negozio con articoli di prima necessità e il retrobottega, da cui giunge la voce della moglie interrogata sul prezzo dell'articolo che acquisto. Un vero e proprio flashback!
Inutile negare che queste situazioni mi piacciono e mi stuzzicano. Una delle riflessioni che mi sorgono spontanee è: questa libertà, questa italianità è quel qualcosa che i tedeschi ci sollecitano a rimuovere per "adeguarci" ed "allinearci" al passo coi tempi?


mercoledì 13 giugno 2012

Birthday's balance

 
Pia
foto di Marco Lorenzi

Il giorno del compleanno ha sempre un'aria particolare. Essere venuti al mondo, aver iniziato a vivere su questa terra induce più di una riflessione. Gli anni passano e oggi sono 54, i mesi 648 e i giorni 19.724. Numeri che si accumulano uno sopra all'altro e se questa sommatoria si dovesse fermare, ahimè, sarebbe un capolinea prematuro...
Pensavo, ieri sera, a tutti quei volti, a tutti quegli amici che ho perso strada facendo, amici che non ci sono più e sono tanti. Pensavo a quei compleanni tristi che hanno segnato il passo del mio esistere, come pietre miliari, e di cui non è dato dimenticarli. Pensavo alla relatività del tempo se rapportata al senso dell'esistere, alla coscienza di sé che trascende indubitabilmente ogni misurazione: si è stati, si è, e sempre si sarà, anche se non ci è dato capire come, dove e quando.
Insomma, la vita è un viaggio. Si parte, si va, ne capitano di tutti i colori, si fa fatica a crescere e a maturare, ci si ammala, ci si stanca, si soffre e si vola, ma soprattutto è importante mantenere viva quella connessione con se stessi che permetta di sentire di esserci, di apprezzare, di volgere le intenzioni al bene e quindi di amare il prossimo.
Tutto è complesso, anche se poi, alla fin fine, è proprio nella semplicità che si trovano le soluzioni. La mente ci dà una bella mano a complicarci l'esistenza e soltanto quietandola sgorgano le più inaspettate risposte.
Col passare del tempo si scopre quella calma nella riflessione che gli anni giovanili non sanno intravedere. La vecchiaia non è mai stata elogiata, ma per certi versi ho sempre pensato che sia anche positiva, solo se accettata e valorizzata per quelli che sono i suoi pregi. 
Invecchiare, quindi, non è poi così un grosso problema, solo se ciò avviene nel volerne cogliere i lati migliori.
Può anche darsi che io mi sbagli a pensarla così: se così sarà non resta che riparlarne tra qualche anno!

lunedì 11 giugno 2012

Ciau Enso

Enzo Biamonti - Enso

Ci sono persone che durante il corso della vita ci è dato incontrare e che rimangono per sempre nella nostra memoria. Uno di queste è Enso, fratello del ben più celebre scrittore Francesco Biamonti.
Dei tre fratelli, Enso è quello che ho conosciuto per primo. Ero molto giovane, e mio padre mi aveva già abituata a svolgere ogni sorta di burocrazia: il catasto, l'ufficio del registro, la camera del lavoro, il sindacato, le banche e quant'altro non hanno mai rappresentato per me un problema, perché ho appreso a frequentarli assai presto. E proprio in banca, l'allora Banco di Imperia, mi ritrovai di fronte questo impiegato col quale entrammo in empatia quasi per "fiuto". Mi guardò un paio di volte negli occhi e la terza mi porse il suo pacchetto di Gitanes e l'accendino sotto il vetro della cassa e mi disse in dialetto: "fumiamocene una" e così ogni volta che entravo in banca (allora si fumava dentro l'ufficio!) si rinnovava il rito e cominciammo a conoscerci. E iniziò anche a prepararmi delle fotocopie di articoli abbastanza rari, di taglio anarchico, che puntualmente tirava fuori dal cassetto non appena mi avvicinavo allo sportello. Infine passammo anche al caffè, nel bar di fronte alla banca, apponendo quel pratico e categorico cartello con su scritto "Chiuso" fintanto che la nostra pausa e la nostra conversazione non si fosse esaurita.
Silenzioso, coerente e insofferente nei confronti di un mondo in cui non c'era (e non c'è) verso di trovare o conquistare un pò di giustizia sociale, Enso in quella banca ci lavorava perché doveva, senza ambizione e non favoreggiandone gli scopi: la sua intelligenza e la sua sensibilità non glielo permettevano.
Non si è mai fatto travolgere dai tempi moderni. Manteneva quella coscienza, quella consapevolezza di un mondo quasi tutto da rifare che gli ha comportato anche tanta sofferenza e ricercava, con le persone a lui simili, la condivisione di pensiero e dello stare assieme come pochi sanno ancora fare.
Francesco con la letteratura, Enzo con la politica, Giancarlo con il pallone elastico: ognuno dei tre fratelli ha attraversato la mia vita lasciandomi qualcosa di importante e di cui sono loro molto grata.
Ciau Enso, te penseron ancù.


domenica 10 giugno 2012

Le espadrillas



Per chi ha superato almeno le 40 primavere, il ricordo vola a quelle estati quando un acquisto era veramente d’obbligo. Ai piedi non potevano assolutamente mancare quelle scarpette di tela, con la suola in corda, arrivate direttamente dalla Spagna: si trattava delle espadrillas.
Le espadrillas o espartena sono una sorta di scarpa di tela con suole di farro o canapa. Viene utilizzata in particolare in Spagna, in Francia e in diverse aree dell'America latina.
L’origine della parola espadrillas è la parola araba albargat, plurale di albarga, ossia che coprono. La loro storia è vecchissima; la loro fabbricazione rudimentale, e la semplicità dei materiali con cui sono fatte, fa risalire le espadrillas ai tempi antichi quando forse erano già usate dai Romani e dai Greci.
I primi riferimenti più specifici si trovano nel Medio Evo. 
La loro origine sembrano essere i Pirenei, ed è testimoniata almeno dal 1322, quando un documento scritto in catalano descrive espardenyes "espadrillas"
Il creatore delle espadrillas appare a Mouléon nel 1850: egli acquista le materie prime, organizza e distribuisce il lavoro a domicilio e raccoglie il prodotto finito che poi vende ed esporta. Secondo un altro documento, già nel 1868 gli emigranti stabiliti in Argentina chiedevano che venissero loro inviate le calzature dal loro paese.
Il suo grande centro di produzione è Mauléon, comune che si trova nella parte nord-est del Paese Basco francese, nello storico territorio di Zuberoa.

foto espadrillas

Le espadrillas sono costruite utilizzando una tela forte, con suole in corda di iuta o di canapa. Sono molto leggere e di buona aderenza al suolo.
I colori, un tempo, non erano molti: nero, rosso, il blu stinto, fino ad arrivare ai più audaci che non disdegnavano le strisce. In realtà già si trattava di un «remake» fashion visto che Picasso aveva indossato quelle calzature. Certo la qualità e i prezzi variavano anche se erano sempre contenuti. Unico inconveniente la pioggia: la suola in corda una volta bagnata poteva portare qualche problema. 
Quest'estate la moda, sempre pronta a riciclare e a riportare in auge le suggestioni del passato, complice anche la crisi economica, rilancia le espadrillas. Le varianti pare siano molte: si va dalle classiche passando per il modello a zeppa, fino alla versione sandalo aperto o chiuso. Non mancano le fantasie caraibiche, le paillette e le immancabili righe. 
Trattasi, dunque, di una scarpa che non passa mai di moda ed ha il vantaggio di essere 100% biologica, poiché tutti i componenti sono naturali.
Unico disappunto: io non sono mai riuscita a portarle! E voi?



sabato 9 giugno 2012

Palomar

Italo Calvino (1923 - 1975)

"In un epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto passa settimane e mesi in silenzio."

Italo Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983, pag. 104


giovedì 7 giugno 2012

Il Bistrò di Igor Cassini


Secondo una breve definizione,il  Bistrò è un caffè parigino in cui si consumano anche piccoli spuntini. Nell'estremo ponente ligure le connessioni con la Francia sono frequenti ed ecco l'idea che che ha realizzato un ragazzo di Dolceacqua, Igor Cassini, per avviare un'attività lavorativa.

 Igor Cassini

Con un sorriso sempre smagliante, oggi Igor ha accolto un folto pubblico di amici intervenuti per l'inaugurazione del suo locale. Aiutato molto per l'allestimento dalla sua eclettica mamma Yvon, l'ambiente da osteria che hanno realizzato è davvero bello e accogliente, e soprattutto curato nei dettagli.
Ne espongo alcuni con brevi definizioni.


Spicca sul muro una bella poesia di Alda Merini...


...mentre dal sopraluce si intravede il castello dei Doria, 
simbolo di Dolceacqua.


 Una colorata lampada stile liberty ed un cesto di pervinche...


...ed una targa di automobile degli anni Sessanta.


Un vecchio orologio usurato dal tempo...


...ed un ritratto di Nino, il papà di Igor, 
titolato Cascìn u singaru.


E poi la festa: all'interno del locale musica reggae 
con un cantante che risiede nella multietnica Dolceacqua...


...e all'esterno la mitica Bandina della valle 
che non poteva di certo mancare all'evento!


Tutto attorno la bellezza di sempre: 
il borgo vecchio col Castello dei Doria...


...il campanile che spicca nel cielo azzurro...


...ed uno scorcio del ponte medioevale sul fiume Nervia.


 Infine, lassù in alto, l'imperturbabile monte Toraggio 
lancia uno sguardo sulle umane turbolenze.

Intraprendere, investire, confidare, sperare che... 
I tempi sono difficili, soprattutto per i giovani, si sa. Riuscire a realizzare un'idea, un progetto è già una gran cosa. Non rimane che augurare a Igor una buona riuscita della sua nuova attività e soprattutto che possa offrire ai suoi clienti quelle intense atmosfere così ben descritte dalla poesia della Merini...


martedì 5 giugno 2012

Il buon compagno



    Non fu l'Amore, no. Furono i sensi
    curiosi di noi, nati pel culto
    del sogno... E l'atto rapido, inconsulto
    ci parve fonte di misteri immensi. 
    Ma poi che nel tuo bacio ultimo spensi
    l'ultimo bacio e l'ultimo sussulto,
    non udii che quell'arido singulto
    di te, perduta nei capelli densi.
    E fu vano accostare i nostri cuori
    già riarsi dal sogno e dal pensiero;
    Amor non lega troppo eguali tempre. 
    Scenda l'oblio; immuni da languori
    si prosegua più forti pel sentiero,
    buoni compagni ed alleati: sempre.

    Guido Gozzano (1883 - 1916)

domenica 3 giugno 2012

Castellaro


Castellaro (Im) - U Castelà
foto di Mattia Anselmi

"Era un clemente pomeriggio di primavera ed era perfetto per andare a Castellaro, anche se il funerale non era certo la motivazione migliore.
Appena raggiunta l'Aurelia, dopo l'autostrada, la nuova strada e la superstrada, la mamma guardava il paesaggio, ovvero la collina sottostante il luogo della nostra méta e mi dice: "Cousa i sun ste sciure gialle? Ina nòva cultivassiun?"[1] Le rispondo: "Na, mama, i sun ravaneli e agrete, gh'è tùtu gerbu..."[2] e in quel momento anch'io mi rendevo conto per la prima volta dell'abbandono che imperversava in quella zona, come in molte altre a ridosso della costa, un tempo prosperose di fiori di ogni genere.
Risalendo la collina, i miei occhi cercavano con insistenza il panorama di Taggia, rischiando continuamente di invadere l'altra corsia e facendomi insultare e strombazzare dalle vetture che incontravo. Era bella, quell'immagine, colma di fascino e poesia... vederla così bene ed insolitamente mi catturava l'occhio e il sentimento. Un tornante mi offriva Taggia, l'altro il fondo valle Argentina e rimanevo spaesata alla vista di un intricato labirinto di capannoni, palazzi, strade e controstrade, ferrovia, laminati e cemento.
Castellaro è disteso sul colle, come Perinaldo. Sono paesi in cui la luce è esagerata, inonda ogni dove e lo spettacolo mi colma. E' bello osservare il suo serpeggiare sulla cresta della collina. 
Desideravo tanto un caffè, ma l'unico bar era chiuso per lutto. "Nei paesi siamo tutti parenti - ho pensato - saranno in lutto per Nino u Basté, così come anch'io sono qui per lui". Invece no, il morto era un altro, il nonno di 99 anni che, già che c'era, poteva aspettare ancora un pò e gli avrebbero fatto una bella festa per i cent'anni ed io mi sarei potuta godere quel caffè tanto agognato.
Avevamo by-passato la messa: impensabile andare alla chiesa degli Angeli a Sanremo in Piazza Colombo, troppo casino, troppo traffico per noi anime contadine. Aspettare davanti al cimitero era la soluzione migliore. Noi eravamo "e furestre"[3], venivamo da lontano, dall'altra parte del mondo rispetto a quelli di Castellaro e ai Baaucògni[4], visto che Nino era un Boeri purosangue.
Su quell'unica panchina, silenziosamente ascoltavo i discorsi della gente: il tipo banfone, le donne bisbetiche, il personaggio più simpatico, il tizio che rifiutava di sedersi perché era già la seconda volta, quel giorno, che si faceva la camminata fino al cimitero perché "caminà u fa ben"[5], fino all'indagine per scoprire come mai quelle "furestre" erano lì al funerale du Basté.
Poi tutto scorre. L'arrivo del feretro, la benedizione, la tumulazione, il "piacere" di rivedere persone che alla fine incontri solo in quelle circostanze, i saluti ed il rientro.
La fine dello scopo per cui ci si reca in un luogo spoglia il ritorno del fascino dell'andata. La realtà riprende i suoi contorni e Castellaro emerge nei suoi dintorni violentata come tutti gli altri paesi dell'entroterra ligure. La cittadella col campo golf, lo scempio a Lampedusa, le case brutte e quel fondo valle diventato ormai un non luogo, perché uguale a troppi altri sparsi dappertutto.
Rimaneva solo Taggia, adagiata al suo posto, a consolare l'occhio e l'anima di una viandante irriducibilmente in cerca di bellezza. Taggia vista da lontano."


[1] Cosa sono questi fiori gialli? Una nuova coltivazione?
[2] No, mamma, sono rapanelli e fiori di trifoglio, c’è tutto incolto…
[3] Forestiere
[4] Badalucchesi
[5] Camminare fa bene


Pia Viale, Castellaro, da I racconti della domenica, aprile 2010

venerdì 1 giugno 2012

Dolceacqua

Dolceacqua (Im) - Dussaiga

"Se si incontra qualcuno di Dolceacqua lontano dal suo paese, magari a Parigi o in Germania, egli ne parla con tale fervore che il suono della sua voce già languido e cadenzato si scioglie in un gorgoglio che gli si strozza nella gola. L'emozione è forte, troppo forte. Sarà il ricordo del castello, del torrente, del ponte medioevale, del quartiere detto Terra, forse in opposizione alle rocce che lo sovrastano e all'acqua che scorre ai suoi piedi. E' un paese in crescita nella memoria. Monet diceva che dipingerlo era difficile, ci volevano diaspri e pietre preziose. La luce vi scende obliqua e netta, la luce rimbalza sui tetti, gli ulivi, l'acqua.
L'ho visto una sera nel giuoco delle sue colline. Calavo per la strada dell'Addolorata. Saliva dal mare un celeste arioso e l'ombra era viola sotto gli ulivi; si profilava sul crinale che va ad Alpicella la chiesa di San Gregorio. Si formavano abissi nell'aria e i valloni erano pieni di dolcezza, un magaglio dimenticato sulla sponda di una terrazza sembrava sacro.
Le terrazze della collina, anzi delle colline, non finivano mai di salire, ora più ampie, ora più strette, a volte distese a golfo, a volte acuminate. E' un'ascesa fatta di ulivi e vigne, mescolata a un cielo che è già di Provenza.
Sotto quel cielo che lo ravviva, il paese ha un tono antico, un velo, una polvere di secoli. Bisogna andare cauti nel toccarlo. Basta uno squarcio ed è finita."

Francesco Biamonti, Dolceacqua, da Scritti e parlati, G. Einaudi editore, Torino 2008, pag. 155