domenica 25 dicembre 2016

La noce moscata


"La noce moscata è il seme della “Myristica fragrans”, albero sempreverde originario dell’Indonesia, oggi diffuso nelle varie zone intertropicali.
Mandorla essiccata di forma ovale arrotondata, avvolta di un rivestimento carnoso (macis) e contenuta all’interno del frutto, ha sapore e odore particolari, dovuti alla presenza di un olio aromatico.
Già conosciuta dai mercanti Arabi medievali, questa spezia si affermò in Europa solo all’inizio del XVI secolo. L’uso, sia in cucina che in profumeria, divenne così diffuso negli ambienti aristocratici, che commerciarla rappresentò per oltre duecento anni occasione d’ostilità e intrighi tra gli Stati europei.
Ci fu un periodo, tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII sec., in cui il mondo cosiddetto "civilizzato" venne colto da una passione per la noce moscata.
In alcuni libri si sosteneva che la spezia fosse un meraviglioso eccitante che cosparso sul collo o in tasca sprigionava il meglio del suo aroma.
La noce moscata ebbe a lungo anche grande reputazione terapeutica come antisettico, e all’inizio del ‘700 rappresentava il rimedio di oltre cento malattie.
Nell’Ottocento, quando gli alimenti di sapore forte e odore intenso furono identificati come stimolanti erotici, la noce moscata divenne uno degli afrodisiaci più ricercati, elemento indispensabile assieme ad altre spezie nella preparazione della “pillola dell’amore”.
Poiché la sua ingestione massiccia causava allucinazioni e convulsioni, la noce moscata venne soprannominata nel Novecento: “Stupefacente dei poveri”

Ancora oggi questa è una spezia molto usata in cucina, ingrediente di dolci, budini e creme, ma anche di purè e verdure lesse. In Italia viene spesso aggiunta nei ripieni per tortellini, ravioli e cannelloni fatti a base di carne, formaggio o spinaci".

E mi piace ricordare la mamma, quando la usava con la piccola grattugia concava ai lati. Quel profumo e quel nocciolo che rimpiccioliva ogni volta (destinato a durare ancora chissà quanto!), rimane uno dei rituali più particolari che le vedevo fare in cucina: preludio di cose buone, come la cima, i ravioli e i cannelloni. 


Buon Natale 2016!


martedì 20 dicembre 2016

I bambini di Aleppo


Hanno perso l'angelo custode i bambini di Aleppo,
Waseem ormai non ha più ali per abbracciare quel cielo
sprofondato nel buio di una notte infinita.
Con il filo sottile della speranza
rammendava brandelli di vita e curava il dolore innocente
per regalare ancora un domani ai bambini di Aleppo
sospesi fra il cuore e un vento di stelle.
Figli di un dio minore disceso da un cielo distratto
sognano ancora di ascoltare
la voce del mare in un giorno d'estate
quando non pioveranno più fuoco e bombe
sulle strade bagnate di lacrime e sangue.
S'inventano giochi i bambini di Aleppo
nei cortili delle case dilaniate,
fra le rovine di un'infanzia sconfitta.
Hanno un cuore di vento per volare oltre la paura,
ma non corrono sui prati,
solo pietre e silenzio germogliano all'ombra del dolore.
La morte con mani di falce ha profanato quei sorrisi
e ora giacciono esanimi, i capelli spettinati sulla fronte,
la manine bianche arrese al gelido abbraccio,
il capo reclinato con un abbandono più grave del sonno
e gli occhi spalancati a guardare un mondo
che ha smarrito il senso della vita.
Adesso sono leggeri, leggeri i bambini di Aleppo
perché vogliono volare in alto nel cielo,
salire su quella giostra appesa ad un raggio di luna
e correndo fra le stelle ricamare arcobaleni
sulla soglia del tramonto.



Waseem era l'ultimo pediatra rimasto a prestare soccorso all'ospedale di Aleppo. A fine aprile è morto durante un bombardamento contro l'ospedale.


Rita Muscardin - Savona

I classificata al 3° Concorso Nazionale di Poesia "Leivi 2016" - Città dell'olio - Categoria Poesia Inedita 

                                            

giovedì 15 dicembre 2016

Mi dicevano che il tempo...


Mi dicevano che il tempo
guarisce ogni cosa, 
persino il dolore dell'anima.
Così ho esposto allo sguardo dei giorni
la mia carne piena di cicatrici
e il respiro ho messo nelle mani del vento
per potermi sollevare e ridarmi fiducia.
Mi dicevano che il tempo
sana anche la malinconia
e cancella il male dal volto
e guida verso la giusta via
chi, come noi, si è perso.
Io sono ancora qui, 
e vago negli spazi angusti del vivere
e le ferite inflitte dal gelo altrui
rimangono voragini di urla taciute.
Mi dicevano che il tempo
guarisce ogni cosa.
Ma forse il tempo da qui
non è mai passato.


Nadezhda Georgieva Slavova 



II classificata al 3° Concorso Nazionale di Poesia "Leivi 2016" Città dell'olio


martedì 29 novembre 2016

Il saluto di Beppe per Iba


Oggi si sono svolti, a Sanremo, i funerali di Ibrahim Faye, che tutti conoscevano semplicemente come Iba.
Iba era musulmano come io sono cristiano, in una maniera non certamente integralista o fondamentalista, forse più per nascita e consuetudine sociale che per scelta ideologica o religiosa in senso stretto. Iba, come me, era fondamentalmente animista e panteista. Credeva cioè nell'unità della varietà delle forme viventi e delle energie che le fecondano e vivificano, il sole, l'acqua, la terra, l'aria. Gli elementi della sua arte, fatta di sabbia di quattro colori mischiati a formare un universo di luce e di armonia fissati in un attimo eterno su un semplice pannello di legno.
Lo conoscevo da poco più di un anno e ci siamo frequentati per un breve ma intenso periodo. Fu lui che mi lanciò una ciambella di salvataggio mentre stavo naufragando, là alla Pigna, il suo quartiere, il centro storico della sua Sanremo. Il mio entusiasmo naif condito di sano pragmatismo lombardo, era entrato in collisione con quel potere sotterraneo ma terribile che vi aleggia, forse la versione moderna dell'equilibrio statico che tiene insieme da mille anni quelle possenti mura e quel coacervo di tane, di cantine, di segreti. Io riconobbi in lui un uomo libero, ma libero veramente, un uomo che aveva il potere che dona la libertà, quello di stare bene ovunque, di amare tutti e da tutti essere amato. E anche il potere di perdonare, di chiudere un occhio, di vedere il lato positivo delle cose e delle persone. Ci volle poco per dichiararsi fratelli l'un l'altro. Ero io il malato allora. Ero io che venivo chiamato "uno che ha sconfitto il cancro", lasciandoci un pezzo del mio corpo, un polmone, e come non bastasse, ero in lotta contro un virus che mi stava mangiando il fegato. Mentre lui era l'immagine della forza e della salute, alto, atletico, forte nel fisico e nella mente, e tale forza mi infuse e mi aiutò enormemente per superare quel momento.
Poi decisi di lasciare la Pigna a se stessa, una situazione che va aldilà della mia capacità di comprensione e che non giova al mantenimento di quel minimo di fiducia nel genere umano necessario per vivere bene. Finchè non mi giunse la ferale notizia della sua malattia. Avendo già percorso quel cammino compresi subito che la situazione era disperata, ma la sua forza, la sua tranquillità, il suo coraggio, la sua cieca fede nel futuro mi facevano sperare e credere nel miracolo.
Ora io sono guarito e il suo corpo invece è morto. I "fratelli musulmani" hanno vigilato affinchè la sepoltura avvenisse secondo i canoni della loro religione, in una buca, senza ornamenti, senza cerimonie, senza orpelli, senza corteo funebre, senza discorsi o epitaffi. Uniche concessioni alla parte italiana di Iba, la presenza delle donne (praticamente nessuna non bianca) in una cerimonia riservata nell'islam ai soli uomini, una piccola foto su una pezzo di legno per lapide, e il permesso, alla fine della breve cerimonia, di depositare qualche fiore colorato sul mucchietto di terra.
Ma noi che eravamo suoi fratelli o sorelle non abbiamo avuto alcuna difficoltà a sintonizzarci con lui, lui c'era per tutti e per ciascuno, e a tutti coloro che lo hanno cercato nel raccoglimento ha promesso di continuare a fare il possibile per aiutarci a farci vivere in pace e nel bene. Grande Iba.

Giuseppe Uglietti

Iba Faye a Vallebona all'Ape in fiore



lunedì 14 novembre 2016

Rubens a Milano a Palazzo Reale

 Autoritratto

Con la semplicità del mio linguaggio, visto che non sono esperta in materia, provo a descrivere quanto ho visto ieri alla mostra "Rubens. La nascita del barocco" in corso fino al 26 febbraio 2017 a Milano a Palazzo Reale. Ancora una volta, l'Associazione culturale A Cria ha dato l'opportunità ai partecipanti di scoprire qualcosa di sublime, come in tante altre occasioni in passato.

 Ritratto della figlia Isabelle

La mostra non segue un filo cronologico, ma espone le opere per argomenti ed inizia con una sala dedicata ai ritratti, primo tra tutti il suo autoritratto e quello della figlia Isabelle. Ella morì in giovane età e l'amore del padre fu talmente grande da consentirgli di continuare per lungo tempo a dipingerla, tanto era impressa nella sua memoria l'immagine di lei.

L'adorazione dei pastori

Nel 1600, a 23 anni, Pietro Paolo Rubens raggiunse l'Italia a cavallo e vi rimase fino al 1608: voleva scoprire la grandezza dell'arte italiana, rivisitando il mondo classico. Le opere che dipingerà nel corso di quegli anni divengono un modello a cui ispirarsi: i santi vi sono rappresentati come eroi del mondo antico, le sante come matrone romane e gli angeli creano un dinamismo nuovo. E' in questa fase della sua opera che si può affermare la nascita del Barocco, di cui si faranno protagonisti Bernini, Pietro da Cortona, Lanfranco, Luca Giordano e altri ancora.

Cristo risorto

Grazie a Valentina, una bravissima e giovane guida, scopriamo che Rubens era un uomo depositario di molte virtù: bello, colto, ricco e soprattutto buono. Nella sezione dedicata al Sacro, si inizia a vedere la sua grande capacità di rappresentare il corpo umano, seguendo i crismi raffigurati nella scultura mutilata del Torso del Belvedere, l'opera di Apollonio di Atene. Di fronte a tanta perfezione, la mente non può fare a meno di ricordare quanto l'arte giustifichi il nostro vivere, ritornandoci il valore pieno della vita laddove spesso il pensiero tenderebbe a perdersi nel nulla. 

Achille scoperto da Ulisse tra le figlie di Licomende

Si arriva poi alla sezione dei Miti: di fronte a quest'opera, mi inchino. Rimango affascinata dalla scenografia, dal movimento, dall'ariosità, dalla ricchezza di dettagli, dalla simbologia e, mentre Valentina ne spiega il significato, capisco ulteriormente il motivo della mia attrazione: Achille, al centro, vestito da donna per mano della madre Licomede che vuole proteggerlo dal pericolo della vita maschile, viene riconosciuto da Ulisse quando, sentendo rumori di battaglia, Achille reagisce in modo diverso dalle sorelle. A quel punto Ulisse gli da un elmo, sicuro di averlo scoperto con certezza, nonostante l'abbigliamento femminile.
E' senz'altro il gioco tra maschile e femminile che tocca le mie corde, un gioco al quale da sempre mi sento esposta...

 Romolo ed Erittonio alla radici della civiltà occidentale

Sempre più densi di significato, i quadri di Rubens continuano a rapire e stupire. Egli è molto dedito allo studio e da ciò che apprende ha una immensa capacità di riprodurre in immagini i contenuti. In quest'opera egli vede le radici della civiltà occidentale: Romolo, primo re di Roma, ed Erittonio, re di Atene, sono raffigurati in un'articolata simbologia.

Il suicidio di Seneca

Ed ecco Seneca al momento del suo "suicidio", ovvero della sua condanna a morte: il suicidio, tuttavia, era proibito ed allora Rubens raffigura un medico sulla destra che, con in mano un bisturi, recide le vene al filosofo mentre un altro personaggio, sulla sinistra, è pronto ad annotare le sue eventuali ultime parole. Come al solito una fotografia non può di certo rendere l'effetto del quadro originale e l'imponenza ne è oltremodo sminuita...

Ercole nel giardino delle Esperidi

Il fascino della figura di Ercole si incontra più volte nelle opere di Rubens, che era molto attratto dalle virtù virili e di coraggio. Per Rubens la parola "problema" era sostituita dal termine "opportunità" per invocare quella capacità di superare le difficoltà riuscendone sempre vincitore, modello di vita che l'artista praticava in prima persona. Il fascino delle sue opere sta proprio nel "sentire" la presenza della forza come elemento positivo, non necessariamente da intendendersi come volontà di potere o di dominio, bensì come vera e propria virtù con cui affrontare la vita.

Il ratto di Ganimede 

La figura della mitologia greca classica celebre per essere il “coppiere degli dei” è certamente Ganimede: considerato da tutti, uomini e dei, il più bel giovinetto esistente sulla terra, Zeus se ne invaghì e lo rapì sotto forma di un’aquila gigante (ricordata nella costellazione vicina all’Acquario), trasportandolo sull’Olimpo e dandogli l’incarico di servire l’ambrosia agli dei, sostituendo Ebe. In questo mito l’acqua versata dall’Acquario/Ganimede rappresenta il nettare divino degli dei, la conoscenza e la saggezza che avvicinano agli dei. E qui si compie il connubio tra Mitologia e Astrologia.

Susanna e i vecchioni

Infine riporto la storia di "Susanna ed i vecchioni" che fu presa dalla Bibbia, più precisamente dal libro 13 di Daniele ed è il solo episodio in cui, alla tarda età, non viene associata la virtù, ma il vizio. Due magistrati traggono in inganno Susanna per violentarla. Per non tradire il marito, ella si ribella urlando e facendo accorrere i servitori, ma i due perversi gridarono a loro volta tacciandola di adulterio. Per lei non poteva che aprirsi la via di un processo che si sarebbe concluso con la pena di morte per lapidazione. Durante il processo entra in scena Daniele, convinto dell'innocenza di Susanna, e chiede di interrogare separatamente i due vecchioni e ad entrambi rivolge la stessa domanda. Alla domanda dove fossero Susanna ed il giovane amante, uno rispose "sotto un lentisco" e l'altro "sotto un leccio", svelando con la contraddizione la loro menzogna. Racconta la storia che i due vecchioni vennero condannati a morte secondo la legge di Mosè e Susanna salvò il suo onore, la sua dignità e la vita.

Di fronte alla bellezza mozzafiato di queste opere, ritorno ancora per un attimo sul concetto di "forza", essendo questo l'elemento che in ognuna traspare, perché non è affatto sinonimo di arroganza o di potere, ma il puro significato della stessa. Sarà perché troppo spesso ci viene a mancare, o perché assistiamo ad espressioni negative di essa, sarà perché l'epoca in cui viviamo ci impedisce di dare il giusto significato alle cose, insomma, ritrovarla con così tanta chiarezza non può che farci del bene.

Concludo ringraziando la curatrice della mostra, Anna Lo Bianco, e la bravissima Valentina, la nostra guida. Questa ragazza mi ha fatto pensare ad una canzone che recita "Cosa resterà di questi anni Ottanta"... Valentina appartiene a quel decennio e se resteranno persone come lei, possiamo tranquillamente dire che avremo buoni eredi!

E un grazie va anche all'amico Gian Paolo Lanteri che mi ha stimolato a scrivere questo post...


mercoledì 19 ottobre 2016

L'ego G.I.O.C.A.


La psicologia buddista è maestra, come tante altre discipline, nello sviscerare i significati intrinsechi delle emozioni.
Essendo suo fondamento l'annullamento dell'ego quale soluzione ai problemi dell'umanità ed il proporre l'altruismo come antidoto, ecco che riesce ad individuare 5 dannosi demoni che minano in continuazione il raggiungimento della serenità e del sano vivere.
In italiano si può addirittura creare un acrostico, come si può vedere nel titolo del post, che sintetizza le iniziali di questi demoni e non mancano di certo i rimedi (paramitas) da mettere in atto.

Andiamo per ordine:
G = GELOSIA: è un'emozione devastante che nasce dalla difesa del proprio ego a fronte di qualcosa che ci si vede sottratto o che non ci può appartenere. La gelosia è un grande male che spesso scatena omicidi o atti e pensieri estremamente negativi, di cui l'essere umano è spesso preda. Il rimedio consite nell'acquisire la capacità di saper gioire del benessere altrui, sia a livello di sentimenti, sia di risultati lavorativi, sia di altri successi e quant'altro.
I = IGNORANZA: emozione perturbatrice da cui discendono tutte le altre, ne siamo vittime sia per quello che "ignoriamo", ossia non sappiamo, sia per un accecamento egoico che fa presumere che se ne sappia più degli altri. Pericolosa, dilagante e anche solida corazza dietro cui ci trinceriamo, richiede di sviluppare la saggezza, soprattutto attraverso la meditazione, al fine di comprendere il senso di tutte le cose.
O = ORGOGLIO: ovvero "essere al centro di tutte le cose", è un'emozione di cui si "gonfia" l'ego a scapito degli esseri, pavoneggiando la propria personalità, o nazione, o appartenenza con senso di superiorità. Richiede un antidoto ben preciso, ovvero l'equanimità, cioè riconoscere a tutti le proprie capacità e la possibilità di progredire nel loro percorso. Il suo esatto contrapposto si può coniare quindi nell'umiltà.
C = COLLERA: emozione complessa, composta anch'essa dall'insieme delle altre. Esprime un'energia forte e pericolosa, si potrebbe dire bestiale, capace di infierire e ferire senza controllo alcuno. Il rimedio da sviluppare per controllare questa pericolosa energia negativa è ovviamente la pazienza e la benevolenza, che ci introducono alla calma e al controllo dei pensieri ed anche l'amore, come contrapposizione all'odio di cui la collera si nutre.
A = ATTACCAMENTO/DESIDERIO: questa emozione è il frutto del volere e del possesso, che ci rende prigionieri di noi stessi e ci crea, al di là degli aspetti piacevoli, una grande sofferenza, soprattutto l'insoddisfazione. L'antidoto a questo demone è la generosità e la meditazione sull'impermanenza del tutto.

Un piccolo ma denso schema che alla lettura ci dà il senso dell'ovvio, ma riuscire a metterne in pratica i contenuti non si rivela, poi, così semplice.
Sviluppare saggezza e compassione, pilastri su cui si fonda la serenità e il lieto vivere, è una via ardua. E al di là di quello che solitamente passa per la nostra mente (e che spesso è frutto della coscienza discorsiva dettata dal nostro ego), il pericolo vero e proprio è il comportamento che assumiamo nel relazionarci con gli altri. Quanta strada, (e veramente ardua!) abbiamo da percorrere dentro noi stessi!


giovedì 29 settembre 2016

IN GOTU DE DURSEAIGA (IL ROSSESE)



La forma di foglia che parla d’Oriente
Arrivata a Marsiglia con le navi d’Athina
Dal 1800 quell’aroma si sente
Dell’acino viola con buccia assai fina.

Pianta difficile da coltivare,
Con quel suo faticare, come dice Gianni,
Sul suolo drenato per far respirare,
Molti vigneti hanno più di 100 anni.

Il terreno perfetto da sempre è lo sgrutto
Predilige la fascia dai sacri maixei
Sotto ai 600 metri dal mare in tutto
Sapore diverso dal Campochiesa, direi.

Il profumo suo rosso è lieve e fragrante,
Fruttato e di fiore, di macchia e del timo
Del pino, di terra e di mare distante
Di rosa appassita, e del suo dolce destino.

A quindici gradi è un dono col fiocco
Col pesce, la carne, funghi e verdure
Arte sua rara sposa ben l’articiocco
Scegli quel gotto e le sue giuste misure

Con i fagioli e l’amico capretto
Agnello al forno e coniglio locale,
Terrina di fagiani e vitella all'uccelletto,
Faraona alla crema col fungo speciale,

Buono coi tordi in bagno di burro
Con il formaggio della alta Val Nervia.
Se giovane ama il pesce azzurro
Ed i salumi rossi della montagna impervia .

Luvaira, Brunetti e Migliarina,
Arcagna,  Morghe e Cian da Marchesa
Pini, Bramusa, Galeae e Tramontina
Sono i suoi regni sotto ogni Chiesa.

Grazie al Rossese la terra s’adorna
Di luce soave già pregna di gusto
Dove ogni anno il pensiero mio torna
Al lieve godere sì dolce e giusto.


Fabrizio Bissi Fulloni


venerdì 26 agosto 2016

Sei voci



Non fu il mare a raccoglierci
Noi raccogliemmo il mare a braccia aperte.

Calati da altopiani incendiati da guerre e non dal sole,
traversammo i deserti del Tropico del Cancro.

Quando fu in vista il mare da un’altura
Era linea d’arrivo, abbraccio di onde ai piedi.

Era finita l’Africa suola di formiche,
le carovane imparano da loro a calpestare.

Sotto sferza di polvere in colonna
Solo il primo ha l’obbligo di sollevare gli occhi.

Gli altri seguono il tallone che precede,

il viaggio a piedi è una pista di schiene.


Erri De Luca (1950)


giovedì 28 luglio 2016

Non è facile

Dipinto di Lia Pasqualino Noto

Non è facile invecchiare con garbo.
Bisogna accertarsi della nuova carne, di nuova pelle,
di nuovi solchi, di nuovi nei.
Bisogna lasciarla andare via, la giovinezza, senza
mortificarla in una nuova età che non le appartiene,
occorre far la pace con il respiro più corto, con
la lentezza della rimessa in sesto dopo gli stravizi,
con le giunture, con le arterie, coi capelli bianchi all’improvviso,
che prendono il posto dei grilli per la testa.
Bisogna farsi nuovi ed amarsi in una nuova era,
reinventarsi, continuare ad essere curiosi, ridere
e spazzolarsi i denti per farli brillare come minuscole
cariche di polvere da sparo. Bisogna coltivare l’ironia,
ricordarsi di sbagliare strada, scegliere con cura gli altri umani,
allontanarsi dal sé, ritornarci, cantare, maledire i guru,
canzonare i paurosi, stare nudi con fierezza.
Invecchiare come si fosse vino, profumando e facendo
godere il palato, senza abituarlo agli sbadigli.
Bisogna camminare dritti, saper portare le catene,
parlare in altre lingue, detestarsi con parsimonia.
Non è facile invecchiare, ma l’alternativa sarebbe
stata di morire ed io ho ancora tante cose da imparare.


Cecilia Resio - Le istruzioni


Poesia pubblicata su Facebook da Gianni Modena


lunedì 18 luglio 2016

Se sapessi a quale razza...


Se sapessi a quale razza appartengo, sarei una persona libera da tanti dubbi.
Se non avessi la pelle olivastra, se il soprannome della mia famiglia (Mouriai) non avesse quel riferimento così diretto ai Mori, se il mio gruppo sanguigno non fosse B, tipico degli arabi, se i miei sentimenti di compassione per l'olocausto non mi toccassero così nel profondo, se il mio essere italiana, europea, occidentale non fossero un dato di fatto, se la mia simpatia per il Buddismo non fosse l'unica via per accettare una religione, se le mie idee politiche non fossero così radicate nel motto "Liberté-Egalité-Fraternité", se il mio "senso dell'altro" non fosse un elemento di continuo stupore di fronte al dilagante egoismo, se tutti questi "se" non affollassero la mia mente, allora non avrei esitazioni a condannare, a disprezzare, a discriminare.
Invece sono tutto questo e altro ancora. Sono un essere umano, senza certezze, senza fede patentata, ma non senza la speranza in un mondo migliore. Chiamiamolo "bene", oppure "amore", ingoiamo tutte le brutture e le atrocità, ma resistiamo fermi nei principi e qualcosa cambierà.
E se la Storia è quella che stiamo vivendo, ricordiamoci che non c'è nulla di nuovo sotto il sole.



sabato 25 giugno 2016

Elogio dell'ombra

Foto di Luigi Ghirri

La vecchiaia (è questo il nome che gli altri gli danno)
può essere per noi il tempo piú felice.
È morto l’animale o quasi è morto.
Restano l’uomo e l’anima.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non son tenebra.
Buenos Aires,
che un tempo si lacerava in sobborghi
verso la pianura incessante,
è di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le confuse strade dell’Once
e le precarie case vecchie
che seguitiamo a chiamare il Sud.
Nella mia vita son sempre state troppe le cose;
Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e somiglia all’eterno.
Gli amici miei non hanno volto,
le donne son quello che furono in anni lontani,
i cantoni sono gli stessi e altri,
non hanno lettere i fogli dei libri.
Dovrebbe impaurirmi tutto questo
e invece è una dolcezza, un ritornare.
Delle generazioni di testi che ha la terra
non ne avrò letti che alcuni,
quelli che leggo ancora nel ricordo,
che rileggo e trasformo.
Dal Sud, dall’Est, dal Nord e dall’Ovest
convergono le vie che mi han condotto
al mio centro segreto.
Vie che furono già echi e passi,
donne, uomini, agonie e risorgere,
giorni con notti,
sogni e immagini del dormiveglia,
ogni minimo istante dello ieri
e degli ieri del mondo,
la salda spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti,
l’amore condiviso, le parole,
ed Emerson, la neve, e quanto ancora.
Posso infine scordare. Giungo al centro,
alla mia chiave, all’algebra,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.


Jorge Louis Borges


domenica 22 maggio 2016

2050. Breve storia del futuro.


"Conflitti globali, mutazioni genetiche, diseguaglianze sociali ed economiche, sfruttamento delle risorse naturali compongono il complesso panorama dei prossimi decenni; gli artisti di 2050 interpretano queste tematiche complesse e invitano a ri-pensare il tempo che verrà con visioni anche costruttive e talvolta ironiche".

Questa sintesi racchiude ciò che si può vedere alla mostra 2050. Breve storia del futuro in corso a Milano, a Palazzo Reale, fino al 29 maggio. Quarantasei artisti, con le loro opere, interpretano l'omonimo libro di Jacques Attali, uscito nel 2006. Ebbene sì, ci sono andata, con curiosità e aspettative diverse da quello che ho visto e percepito.

Ci sono alcuni termini chiave in questa mostra, che hanno quasi tutti il suffisso iper. 
Iperimpero
Sovrapopolazione
Sovraconsumi
Iperinquinamento
Iperconflitti
Iperdemocrazia


Le mie aspettative erano finalizzate alla prospettiva di un "mondo migliore", ma, ahimè, sono andate deluse. Quello che gli artisti hanno realizzato per interpretare il libro di Jacques Attali ci dà un'indicazione inquietante: il mondo andrà avanti nella direzione in cui sta andando adesso, amplificando i fenomeni per effetto della globalizzazione.

Alighiero Boetti - Mappa Geopolitica (Ricamo)

Iperimpero: Boetti ha chiesto a degli artigiani Afghani di produrre dei bellissimi ricami che rappresentino la mappa politica mondiale senza prendere parte al procedimento, per sottolineare come lui stesso, in quanto individuo, abbia poco o addirittura nessuna influenza sul modo in cui i confini si evolvono. Ci sarà un declino dell'impero americano e la geopolitica cambierà velocemente, con alcuni paesi che emergono e altri che spariscono.

Fat Man di John Isaacs

Iperimpero va di pari passo con sovrapopolazione, sovraconsumo e iperinquinamento, con particolare riferimento all'inquinamento degli oceani causato dai rifiuti plastici. C'erano diverse opere in questa sezione, non da ultime alcune sculture realizzate utilizzando rifiuti come materiale.

Tracey Snelling - Aeroplastisc

In quest'opera si mescolano le culture dell'America Latina e della Cina: anche se il progresso infrastrutturale non è giunto, la tecnologia è presente in ogni antro...

Iperconflitti: secondo J. Attali, le tensioni prodotte dalle ineguaglianze potrebbero degenerare in numerosi conflitti (come alcune situazioni attuali, peraltro). Al Farrow, con la sua sinagoga, mausoleo mussulmano e reliquario cristiano, fatto di armi e munizioni, sottolinea come le fedi religiose e la guerra siano sempre collegati E, sinceramente, queste tre opere sono state quelle che mi hanno colpito di più: 

Al Farrow - Sinagoga 

Al Farrow - Mausoleo mussulmano

Al Farrow - Reliquario cristiano

Iperdemocrazia: Jacques Attali evita di utilizzare termini come "ottimistico" o "pessimistico", dal momento che li vede entrambi come i poli dell'"inazione": attendere che venga un futuro migliore oppure aspettare che venga la fine del mondo. 

 Mark Titchner  - Let the future tell the true. Another world is possible

Un po' di speranza è nell'opera di Mark Titchner: con motivi vittoriani costruisce una città ideale che contrasti con la cementificazione incontrollata e dove esprime che non ci sarà futuro senza salvaguardia del passato. 
Et enfin, altra opera sorprendente:

John Isaacs - Architecture of Empathy

E una Pietà michelangiolesca velata. Un masso potente (4 tonnellate), scavato nel marmo bianco di Carrara rifà l'icona del Buonarroti in perfette proporzioni, ma nascosta da un drappo, come un sudario che avvolge madre e figlio. Fisionomie e profili svaniscono. Resta un abbraccio, un'anima, un'empatia del gesto sotto quel velo, come suggerisce il titolo della scultura, Architecture of Empathy. L'autore è John Isaacs, provocatorio scultore inglese, che qui riesce a cogliere nel segno lo spirito del tempo e dei suoi conflitti, spesso nutriti da una totale mancanza di empatia.

Una bella mostra, serviva più tempo per coglierne ogni significato. In ogni caso un tentativo di dare delle risposte alle troppe domande che ci affollano la mente, il che non è poco.

sabato 30 aprile 2016

Mario Genari, partigiano Fernandel

Medaglia d'oro a Mario Genari, partigiano Fernandel

Il 25 aprile, in Prefettura ad Imperia, sono state assegnate 63 medaglie d'oro a coloro che si sono distinti durante la Resistenza. Anche Mario Genari, partigiano Fernandel, è stato insignito di questo importante riconoscimento, ma dall'agosto scorso egli non è più tra noi e i figli Antonietta e Giorgio hanno ritirato l'onorificenza.

Antonietta Genari ritira la medaglia d'oro della Liberazione 

Per ricordarlo, riporto alcuni passi tratti dal libro Le radici di un percorso. Associazionismo e cooperativismo in provincia di Imperia in cui raccolsi la sua memoria: 

"Il 1942 fu un anno decisivo e di forte svolta: in Africa e nella campagna di Russia erano solo bastonate; la mancanza di prodotti alimentari e di beni di prima necessità, come vestiti, scarpe, gomme per le biciclette, prodotti indispensabili per l’agricoltura si accentuavano, al punto che i contadini mettevano le monete di rame nell’acido muriatico, aggiungevano calce e ottenevano la poltiglia bordolese utilizzata come verderame da poter dare alle viti. La crisi alimentare colpiva particolarmente le zone urbane, per cui l’esasperazione della gente cresceva in modo esponenziale: si sentiva gridare, protestare anche se c’era la dittatura. Lo spettro della fame e l’assenza degli uomini nelle famiglie (i nativi dal 1910 al 1920 erano tutti reclutati) diventarono elementi sufficienti affinché le coscienze diventassero consapevoli dello stato delle cose".


 Mario Genari ed un amico partigiano a Montegrande

"La popolazione nutriva una forte avversione per la guerra. Quando qualcuno era reclutato, gli amici gli consigliavano di non esporsi, di fare il possibile per salvarsi dall’andare in guerra. Questi consigli erano la regola che comunemente seguiva la gente dell’entroterra, anche coloro che simpatizzavano per il fascismo. Era un sentimento che già aleggiava nel 1940, benché l’ipotesi di perdere non ci fosse, dato che l’esercito tedesco aveva fatto capitolare la Francia, invaso i Paesi dell’Europa dell’Est e stava puntando su Mosca e Stalingrado: mezza Europa era sotto il dominio nazista. La ricerca di raccomandazioni per evitare di andare a combattere era largamente diffusa: chi conosceva graduati non esitava a chiedere di essere riformato, così come la richiesta di certificati medici che evidenziavano difetti fisici era uti
lizzata allo stesso scopo. Anche tra i caporioni fascisti era diffuso il tentativo di evitare la guerra, imboscandosi negli uffici o nei ruoli più svariati".


 "Alcune popolazioni contadine dimostrarono una grande collaborazione con i partigiani, altri paesi meno. Tra i componenti delle formazioni partigiane e i vari comandi vi erano persone motivate da ideali politico-sociali; altri che fecero le prime esperienze di un movimento collettivo, finalizzato a porre fine alla guerra, ed altri ancora che ne approfittarono per sfuggire al reclutamento. C’era l’organizzazione militare e c’era pure un volontariato locale che dava un contributo di informazioni e di difesa. Tuttavia la collaborazione del mondo rurale fu fondamentale: ad esempio, quando un partigiano doveva spostarsi da un luogo all’altro e non sapeva se avrebbe potuto incontrare i tedeschi, qualsiasi cittadino incontrato sulla propria strada rilasciava sempre informazioni a favore del partigiano. Quel mutuo rispetto fu qualcosa che portò frutti anche dopo la guerra, quando la necessità di organizzarsi vide accrescere la credibilità delle associazioni di sinistra". 


E riporto anche la mia riflessione che scrissi alla fine del suo racconto riguardante il capitolo dedicato alla Resistenza: 

"Da questa pagina di storia, voluta dalla gente e non dal potere, sono state educate intere generazioni all’antifasciamo. Era naturale ricevere quel messaggio, era scontato difendersi da quei principi, anzi si cresceva pensando che era un capitolo chiuso, che «nessuno poteva più pensare o agire in quel modo». Il fascismo era stato annientato, la lotta partigiana aveva liberato l’Italia dal male e le divergenze politiche riguardavano solo le sinistre e la Democrazia Cristiana… Quanto abbiamo fatto male i conti! Nell’arco di cinquant’anni si sono avvicendate le ideologie tra nascite, rinascite e dissoluzioni in una complessità che soltanto il senno di poi ci permetterà di capirne i perché con maggior chiarezza. Una cosa tuttavia mi appare chiara nell’immediato: terreno fertile al rinascere del fascismo è la caduta dei valori, dell’etica, che si crea per un insieme di meccanismi socio-politico-economici e che espropria l’uomo sia di credo che di forze, perchè rinascono le destre quando l’uomo è annichilito.
Ed io, nata alla fine degli anni Cinquanta, ho un pensiero di tutto rispetto per coloro che hanno combattuto in prima persona per quella causa e mi sento anche responsabile di non aver saputo difendere il loro operato. Mi perdonino e sappiano che ne ho consapevolezza".

Mario Genari, compagno, partigiano, cooperatore, sindacalista, padre, amico, sempre dalla parte dei deboli, sempre umile e lucidissimo. 
Una medaglia d'oro meritatissima.