Oggi si sono
svolti, a Sanremo, i funerali di Ibrahim Faye, che tutti conoscevano
semplicemente come Iba.
Iba era
musulmano come io sono cristiano, in una maniera non certamente integralista o
fondamentalista, forse più per nascita e consuetudine sociale che per scelta
ideologica o religiosa in senso stretto. Iba, come me, era fondamentalmente
animista e panteista. Credeva cioè nell'unità della varietà delle forme viventi
e delle energie che le fecondano e vivificano, il sole, l'acqua, la terra,
l'aria. Gli elementi della sua arte, fatta di sabbia di quattro colori
mischiati a formare un universo di luce e di armonia fissati in un attimo
eterno su un semplice pannello di legno.
Lo conoscevo da
poco più di un anno e ci siamo frequentati per un breve ma intenso periodo. Fu
lui che mi lanciò una ciambella di salvataggio mentre stavo naufragando, là
alla Pigna, il suo quartiere, il centro storico della sua Sanremo. Il mio
entusiasmo naif condito di sano pragmatismo lombardo, era entrato in collisione
con quel potere sotterraneo ma terribile che vi aleggia, forse la versione
moderna dell'equilibrio statico che tiene insieme da mille anni quelle possenti
mura e quel coacervo di tane, di cantine, di segreti. Io riconobbi in lui un
uomo libero, ma libero veramente, un uomo che aveva il potere che dona la
libertà, quello di stare bene ovunque, di amare tutti e da tutti essere amato.
E anche il potere di perdonare, di chiudere un occhio, di vedere il lato
positivo delle cose e delle persone. Ci volle poco per dichiararsi fratelli
l'un l'altro. Ero io il malato allora. Ero io che venivo chiamato "uno che
ha sconfitto il cancro", lasciandoci un pezzo del mio corpo, un polmone, e
come non bastasse, ero in lotta contro un virus che mi stava mangiando il
fegato. Mentre lui era l'immagine della forza e della salute, alto, atletico,
forte nel fisico e nella mente, e tale forza mi infuse e mi aiutò enormemente
per superare quel momento.
Poi decisi di
lasciare la Pigna a se stessa, una situazione che va aldilà della mia capacità
di comprensione e che non giova al mantenimento di quel minimo di fiducia nel
genere umano necessario per vivere bene. Finchè non mi giunse la ferale notizia
della sua malattia. Avendo già percorso quel cammino compresi subito che la
situazione era disperata, ma la sua forza, la sua tranquillità, il suo
coraggio, la sua cieca fede nel futuro mi facevano sperare e credere nel
miracolo.
Ora io sono
guarito e il suo corpo invece è morto. I "fratelli musulmani" hanno
vigilato affinchè la sepoltura avvenisse secondo i canoni della loro religione,
in una buca, senza ornamenti, senza cerimonie, senza orpelli, senza corteo
funebre, senza discorsi o epitaffi. Uniche concessioni alla parte italiana di
Iba, la presenza delle donne (praticamente nessuna non bianca) in una cerimonia
riservata nell'islam ai soli uomini, una piccola foto su una pezzo di legno per
lapide, e il permesso, alla fine della breve cerimonia, di depositare qualche
fiore colorato sul mucchietto di terra.
Ma noi che
eravamo suoi fratelli o sorelle non abbiamo avuto alcuna difficoltà a
sintonizzarci con lui, lui c'era per tutti e per ciascuno, e a tutti coloro che
lo hanno cercato nel raccoglimento ha promesso di continuare a fare il
possibile per aiutarci a farci vivere in pace e nel bene. Grande Iba.
Giuseppe Uglietti
Giuseppe Uglietti
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