venerdì 26 agosto 2011

Le stagioni della vita - Infanzia


"La fucina del fabbro era tutta nera di fumo, con una grande bocca accesa, lingueggiante di fiamme rosse e azzurre. Nel centro era l'incudine percossa, a intermittenza, da gran colpi di maglio che illuminavano l'aria, tant'erano felici di suonare e di narrare intorno che lì si lavorava. Nei giorni in cui c'era da temperare il ferro tutta la campagna circostante sapeva il gran da fare del fabbro; il metallo, morso dal fuoco e battuto dal martello, strideva tra una gloria di scintille.


L'altra officina invece era tutta bianca e odorosa di legno fresco. Al grido spiegato del maglio rispondeva con il fitto e discreto picchiettare del martello, col canto dentato della sega, col mormorio sommesso della pialla. E tanto il fabbro era tarchiato e fuligginoso, altrettanto il falegname era sottile, esile e bianco, come una tavola piallata.
Da quelle due officine uscivano i buoni strumenti della vita: i vomeri per aprire la terra, le falci per mietere il frumento, le tavole per sedersi e mangiare, i cassetti per la biancheria stirata, le seggiole per far riposare i vecchi, con la pipa in bocca, sulla soglia di casa; e anche le casse per distendervi i morti. Di tanto in tanto si vedeva comparire uno di questi mobili, fuori dalla porta del falegname; e la gente, che conosceva vita e morte del paese , le guardava e diceva: « È la cassa per il tale... »
Deposta lì, tranquillamente al sole, non faceva alcun senso e suggeriva solo un requiem aeternam per quel tale cui era servito, per l'utima volta, il lavoro degli altri uomini per poter andare decorosamente a dormire.

A guardarsi attorno, dal falegname al fabbro, al mugnaio che dava al paese la farina, al contadino che dava il grano e l'insalata, al muratore che faceva le case, c'era tutta un'aristocrazia del lavoro e della vita, blasonata da visi bronzei e da muscoli robusti, da mani dei poveri, larghe e callose, piene di sangue e di nervi duri, per preparare gli strumenti della vita.
Solo le mani del parroco erano bianche, perché doveva toccare il Signore. Non che il curato fosse meno operoso del fabbro o del mugnaio, ma il suo lavoro di insegnare, di comporre dissensi, di visitare malati e di offrire il sacrificio a Dio, non gliele incalliva, ma pareva gliele rendesse sempre più diafane ed esangui."

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi - Frontiere 2011, prefazione di Rossana Rossanda.
Il brano è tratto dalla seconda parte del libro, intitolata Le stagioni della vita - Infanzia
By Gian Paolo Lanteri


6 commenti:

Adriano Maini ha detto...

Ma anche a Vallebona avete importanti retaggi di storia della civilta' del lavoro.

pia ha detto...

@Adriano: ogni paese li ha..

Anonimo ha detto...

«Quando contadini e artigiani spariranno, sarà la fine della nostra storia» P.P. Pasolini

Silvano Bottaro ha detto...

Un bel frammento che mi riporta alla mente la Zarri, morta pochi mesi fa, forse l'unica teologa e mi piacevano. ☺

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