mercoledì 30 dicembre 2015

L'anno nuovo

Seduta sulla sua poltrona, reduce da un mese con problemi vari di salute, alla veneranda età di 92 anni e un quadrimestre, la mamma mi recita questa filastrocca con la sua voce ormai un po' flebile: la sua memoria l'ha conservata per almeno 85 anni.



L’anno vecchio se ne va, e mai più ritornerà,
io gli ho dato una valigia di capricci e impertinenze,
di lezioni fatte male, di bugie e disubbidienze,
e gli ho detto: “Porta via! questa è tutta roba mia”.

Anno nuovo, avanti avanti,
ti fan festa tutti quanti,
tu la gioia e la salute porta ai cari genitori,
ai parenti ed agli amici rendi lieti tutti i cuori,
d’esser buono ti prometto, anno nuovo benedetto.


Angiolo Silvio Novaro (1866 - 1938)



Buon 2016 !


da PensieriParole

lunedì 21 dicembre 2015

"Deinà" o Natale di una volta


La parola "Natale", mediata dalla lingua italiana, ha quasi sostituito definitivamente Deinà, termine con il quale i nostri antenati indicavano la festa del 25 dicembre.
Sulla sua etimologia non vi sono dubbi, in quanto sia il dialetto ligure, sia il piemontese ed il lombardo l'hanno ricevuta dal latino Dies natalis, giorno della Natività. Sotto varie forme, tutte riconducibili a Deinà, i vocabolari dialettali della nostra regione riportano questo termine, ma più come una curiosità linguistica che come parola di uso corrente.
La sua decadenza deve risalire a molto tempo fa se, già nel 1876, il Casaccia, nel suo dizionario genovese, la riporta così: "Dënâ, Natale o Pasqua di natale. Voce del contado". E in questa ultima annotazione è insita una regola costante nella vita delle parole dialettali. Secondo la teoria del linguista Matteo Bartoli, esse sono più persistenti nelle aree laterali, che solitamente si identificano con le zone rurali, mentre tendono ad innovarsi al centro, dove maggiore è l'urbanizzazione cittadina. Ma, nella citazione di cui sopra, vi è una curiosità che non possiamo passare sotto silenzio, quella “Pasqua di natale” che ricorda tanto la Pascua de Navidad degli spagnoli.
Volgendo, come sempre lo sguardo a Occidente, vediamo che la festa è Natale a Mentone e a Monaco, Calena a Nizza e Nouvè o Calendo in Provenza. Fra i detti legati alla festività natalizia, ricordiamo «dürà da Deinà a San Steva» usato per indicare qualcosa di talmente effimero che la sua durata va dal giorno di Natale all'indomani, festa di Santo Stefano.
Oggi il nostro Natale è più che altro ridotto al rango di una qualsiasi operzione commerciale e anche se, sul fronte linguistico, l'antichissimo Deinà è caduto in disuso, non possiamo fare a meno di constatare che il suo suono arcaico ha il potere magico di evocare i tempi in cui il Natale era soprattutto una festa religiosa che si celebrava nel calore della famiglia.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia d'i ventemigliusi, Alzani Editori, Pinerolo, 1996, pag. 85


domenica 13 dicembre 2015

La ginestra bianca

Foto di Goran Guglielmi

La ginestra bianca, meno
cespuglio che albero, radicata
in un metro di terra e ormai
così alta e spiovente

la ginestra bianca, aperta
come un ventaglio, ramificata
in cielo, inguardabile e così 
presente, così negli occhi

la ginestra bianca, a ciuffi
bianchi, reclini, profumati
sin dalle prime gemme, nuvola
vagante sui giardini

la ginestra bianca, che
sentivamo ogni anno a marzo, rifiorita
e torbida, ha gettato tutti i fiori
nel solstizio d'inverno.


13 gennaio 1977


Giuseppe Conte, Poesie 1983 - 2015, Oscar Mondadori, Milano, 2015, pag.69-70


domenica 6 dicembre 2015

Monet a Torino


Dal Museo d'Orsay alla Gam di Torino: questo è il "viaggio" di 40 opere di Monet che oggi siamo andati a vedere con gli amici dell'Associazione culturale A Cria.
Una mostra bellissima, protagoniste la bellezza e la luce.


La mostra inizia con il trittico di Sisley-Pissarro-Monet e continua con opere esclusivamente di Monet. Già da subito se ne intuisce la sua grandezza: la luce "esce" dal quadro e va verso l'esterno, giunge all'osservatore, regala attimi di respiro, di sollievo, di bellezza.
Pubblico una serie di foto dei quadri esposti che non rendono giustizia, come sempre, a ciò che si prova davanti al quadro stesso:

Argenteuil

En norvégienne

Dejeuner sur l'erbe

Femme à l'ombrelle tournée vers la droite

Un angolo di appartamento

La villa a Bordighera

La pie

L'église de Vetheuil

La Cattedrale de Rouen

 Londres, le Parlement. Trouée de soleil dans le brouillard

La scelta di non commentare con le parole questa serie di quadri ha lo  scopo di rievocare il mio stesso percorso compiuto alla mostra: non mi sono avvalsa della guida, sapendo di perdere delle opportunità conoscitive sulla pittura, ma volevo tutelare la mia percezione. Sentivo crescere dentro di me una sensazione forte, un'emozione che faticavo a definire: c'erano rappresentazioni della realtà che assumevano un aspetto di sospensione, di leggerezza, qualcosa di aereo che mi colmava... E mi è bastato leggere la frase sul muro per capire esattamente quello che stavo vivendo: 


Sentirsi vivi e in sintonia con il tutto: bellissimo.



sabato 21 novembre 2015

Secondo la profezia



La Liguria crollerà in mare, è certo, i suoi
confini alti al vento di abeti e di agrifogli e le
colline antiche terrazzate, di pinastri, di
ginestre, di ulivi, le rocciose

aeree propaggini del cactus e dell'aloe, interi
parchi di palme e di araucarie, ville
bianchissime, le chiese intatte e quelle già sventrate
dai terremoti: su tutto calerà il silenzio colmo di

fondale. Sul pelo dell'acqua poche rame
di precoce mimosa, dell'errante pitosforo.
Liguria dalle città livide, algose, di gusci, traversate
da squame e da correnti: incrostate

di buio, del buio bagliore attonito
di dopo le catastrofi. Noi soli ci
salveremo, noi che abbiamo imparato a
camminare sull'acqua: sul pelo dell'acqua

poche rame di precoce mimosa
basteranno, il vento soffierà l'Isola Viola
nuova ai nostri occhi, seguiremo la rotta
dell'errante 
pitosforo.


Giuseppe Conte, da L'Oceano e il Ragazzo, 1983


mercoledì 4 novembre 2015

Bun'àrime e àrime perse


Immateriale e invisibile come tutto ciò che riguarda il mondo spirituale, l'àrima, cioè l'anima, era una delle parole che, per diritto o per traverso, entrava maggiormente nel linguaggio dialettale. Sarà stato per via della religione, certamente più praticata di quanto non lo sia ai giorni nostri, e quindi per la fede nell'aldilà, ma parlare di àrima era per i nostri vecchi cosa di ordinaria amministrazione.
Ed è proprio forse dal fatto che, nella vita di un tempo, l'uomo era considerato più spirito che corpo, che è derivato l'uso di dire che un paese era popolato da un certo numero di anime. E, a questo proposito, non è del tutto fuori luogo il riferimento letterario alle "Anime morte" con cui Gogol, nel suo romanzo, indicava i servi della gleba passati a miglio vita. Così, per rimanere in tema di trapassati, in dialetto essi venivano sempre ricordati premettendo loro l'appellativo di bun'àrima, "la buon'anima", espressione che oggi, almeno in italiano, suona piuttosto ironica. Nelle chiese non mancava mai la cascéta de àrime, destinata a raccogliere le offerte dei fedeli da utilizzare per la celebrazione di messe per i defunti.
C'era poi una domenica, la quarta di Quaresima per l'esattezza, chiamata duménega de àrime perché dedicata a particolari funzioni in loro suffragio. A Bordighera, nello stesso periodo dell'anno, si tiene ancora oggi una tradizionale fiera chiamata anch'essa delle àrime. Ma, poi, i discorsi quotidiani erano farciti di anima a più non posso: che viveva a lungo u l'aveva l'àrima düra, chi era in apprensione per qualcosa u stava cun l'àrima apesa e chi gridava disperatamente per chiedere aiuto u ragliava àrime perse. A un rompiscatole si minacciava ina barrà in sce l'àrima oppure si diceva nu stame a rumpe l'àrima.
In un catasto del 1795 si legge di "Una terra detta il Serro delle anime con fichi ed olivi" e, spiccando un salto alquanto acrobatico, come non ricordare che in Spagna si trovano certe locande sulla cui insegna si legge "Venta de las almas?"



Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996


lunedì 26 ottobre 2015

Aforisma di Alda Merini


Beato chi ne è capace già in giovane età, in ogni caso diventa una necessità in età matura:

Mi 
piace 
chi sceglie
con cura, 
le parole da non dire.


Alda Merini (1931 - 2009)

Preso da Facebook e trascritto qui affinché rimanga. Là tutto scorre e se ne va, qui si possono ritrovare le cose, almeno quelle più importanti.


venerdì 23 ottobre 2015

Una luce per "Le parole e la notte"

Francesco Biamonti (1928 - 2001)

[...] Piuttosto che portare torpidità e oscurità preferisco alonare le parole di un certo silenzio. D'altra parte sono proprio le parole filtrate dal silenzio, dalla notte, quelle che io cerco di adoperare, e credo di aver adoperato in questo senso tutta una coerenza stilistica per le soluzioni dialogiche e per le soluzioni descrittive.
Nei dialoghi cerco di attenermi all'essenzialità, alle parole che muovono l'essere e che sono veramente parole, non chiacchiera. In francese si dice mot per indicare le parole quotidiane, mentre parole indica già un'invenzione poetica, un'essenzialità e premeditazione più profonde. Bene, io ho cercato di utilizzare sempre delle paroles, mai dei mots, delle chiacchiere: la parola che sia veramente la creazione dell'essere; e la concezione dell'artista come pastore dell'essere, che non narra cose sociologicamente estese, ma narra per intuiti poetici la psicologia del profondo dell'animo umano, portandola il più possibile in superficie. E' il rischio della scrittura. D'altra parte ogni scrittura è un azzardo; si sceglie un tipo di scrittura e se ne escludono molti altri, assumendosene la responsabilità.
[...] L'azzardo si deve quindi correre, e io l'ho sempre corso, col rischio di arrivare a un pubblico rarefatto, con la mia scrittura, perché non è adatta alle grandi masse; però non posso piegarla a esigenze di ascolto maggiore, perché mi sembra che il nostro sia un mondo ormai in cui bisogna prendersi delle responsabilità. Bisogna scrivere a costo dell'impopolarità, in un mondo impregnato dell'antica poesia che fa la dignità delle civiltà mediterranee, italica, francese.


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi, Torino, 2008. pag. 93 e 94


martedì 13 ottobre 2015

Maiolino, monaco di luce


Colpo di dadi gettato fra le ombre della sera, in circostanze eterne, alla ricerca di ciò che fonda l’esperienza visiva, la pittura di Maiolino plana con raffinato rigore sul magma dell’esistenza.
Trasparenze, intrecci, composizioni. Una spietatezza, la mano del destino, il “rappel à l’ordre” di una ronda segreta, prova quest’uomo chino sugli effetti della luce e dell’ombra. Reazione calcolata alla solarità mediterranea, tentativo antico di racchiuderla dentro un corteo di essenze, di intuizioni eidetiche, come a spogliare la terra di ciò che non fa parte della sua frammentarietà astrale.
L’ordine stesso di questo mondo si alza nella sua luce, procede in una geometria scarna, dove le cose vibrano per assenza, in una nostalgia appena suggerita. Pittura di lavorio e di suggestioni intorno a una struttura viva e di cenere.
Un severo, metodico spirito suscita l’idea di un aldilà dell’armonia naturale, di cui la natura è solo un riflesso dalle forme imprecise. L’ombra secolare di un’icona di Bisanzio accompagna la ricerca di un’elementare verità pittorica.
Sono tanti i nomi che potrei fare di questi monaci della luce, una sorta di compagnia di templari e di giansenisti me ne astengo di proposito. Attorno a loro si addice un alone di silenzio.


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi Editore, Torino, 2008, pag. 210 - Pubblicato sul Bollettino della Comunità di Villaregia, 1994


domenica 4 ottobre 2015

Civezza

Civezza (Im)

"Che volete di più? Paese in mezzo agli ulivi e alto sul mare; per arrivarci si passa in una sinfonia di tronchi, di rami: l'orizzonte si apre, oltre che sul mare, su altri paesi dai nomi bellissimi, Pietrabruna, Boscomare, su crinali che se ne vanno lontano, come melodie su flutti d'argento; le case e le piazzette sono antiche, di un'intimità raggrumata nel vento. C'è un che di sospeso, di dolce, di lieve, una vertigine che viene dalla luce in ascesa.
Più su del paese, più su degli ulivi si stende la macchia mediterranea con strade polverose e chiese e sentieri e ovili rosi dai cespugli. La grazia, che sotto era fragile, si fa rude, si accorda fuori del tempo alla forza del mare. Poiché le prime alture, bisogna pur dirlo, sono le più indifese, di un equilibrio che se si tocca si rompe.
Collocata su un costone, arenatavi come una barca, Civezza è fragile e leggera, una nuvola che vi si accosti sembra trascinarla. Basta un palazzo sghembo per offenderla, e una macchina che passi in un vicolo disturba i morti. E' un paese cha ha bisogno di vivere intatto come un ricordo.
Di che sia frutto questa bellezza rimane un mistero: vicoli e cascate di ulivi non bastano a spiegarlo. Che venga dal fatto che ha, sotto, la luce instabile del mare e, sopra, quella più ferma di un paesaggio montano?"


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, G. Einaudi editore, Torino, 2008, pag. 156



giovedì 1 ottobre 2015

Il restauro è ultimato e l'arcano in parte svelato...

U Santétu de Cabanéte restaurato

Tutto cominciò a maggio del 2014, un'iniziativa partita dal basso, all'osteria: Oscar Rossi si fece portavoce e sostenitore della causa. Sembrava cosa da poco, bastavano dei volontari, del materiale e mettersi all'opera. Le cose, però, non si rivelarono così semplici, per cui l'Associazione culturale A Cria di Vallebona prese in carico il "problema" e affrontò le trafile necessarie per arrivare al dunque, come raccontai, a suo tempo qui.

Prima del restauro

Di edicole votive, in dialetto Santéti, a Vallebona, come in tutti gli altri paesi, ce ne sono parecchie. Alcune sono in buono stato, altre sono state mantenute e riparate da privati, una è stata demolita per far passare una strada (e non dico chi ne è responsabile), un'altra è crollata. Insomma: siamo in cammino per salvare il salvabile.

(Cliccando sulle foto è possibile ingrandirle)

Il Santétu de Cabanéte però, è il più particolare di tutti: ci siamo domandati da dove poteva provenire questa architettura, abbiamo chiesto alla gente del paese se ne conosceva la storia, abbiamo contattato, tramite i social net work, professori di ogni genere per cercare di definire questo manufatto.


La restauratrice Raffaella Devalle ha iniziato il suo accurato lavoro attenendosi rigorosamente alle regole previste e nei tempi stabiliti ha portato a compimento l'opera. Anche lei era molto incuriosita e un bel giorno mi dice che un signore, che passa spesso da quel punto, le raccomanda di "aggiustare bene u Santétu". 


Solo osservando bene, si possono notare certi particolari: in queste foto, ad esempio, si vede quanto è sconnessa la base che regge la lastra di ardesia su cui poggia il tutto, lastra che col tempo è pure "scivolata" perdendo la sua posizione centrale e simmetrica.


Raffaella procedeva con solerzia: Flavio Guglielmi ha provveduto il materiale per il basamento su cui appoggiare il suo piccolo ponteggio; l'architetto Tullio Gugole ha seguito giorno per giorno i lavori e anch'io facevo i miei sopralluoghi per vedere il work in progress. E quel signore, ogni volta che passava, aggiungeva qualche informazione...


Un giorno le ha portato due vecchi coppi, dicendo a Raffaella che, a suo tempo, erano posti sul retro del Santétu. Purtroppo, non avendo fotografie che possano testimoniare l'affermazione, per regola non si può aggiungere nulla all'esistente e le regole vanno rispettate. Capisco, dalla descrizione di Raffaella, che il "signore" in questione è Luciano Guglielmi e, benché a volte passano mesi senza che io lo veda, dopo mezz'ora il caso ha voluto che lo incontrassi.


Luciano de Vergì sa qualcosa del Santétu, è l'unico che sa dirci qualcosa. Un suo prozio, fratello di Lisà, sua nonna materna (Lisà era esattamente uguale alla nonna delle favole!), morto cinquantenne nel 1927, era un personaggio estroso, insomma, un artista. Costruì lui quel manufatto, nei primi decenni del Novecento. Si chiamava Avustì, al secolo Viale Agostino e faceva delle sculture in legno di noce che ancor oggi Luciano si chiede come abbia potuto realizzarle. Esiste poi un libretto che spiega il significato delle opere scultoree e la mia speranza è che, su quel libretto, ci possa essere anche qualche riga sul significato del Santétu. 


Luciano, classe 1940, ricorda di averci sempre visto la statua di Sant'Antonio da Padova ed infatti la proprietaria dell'abitazione adiacente, Viale Graziella, l'aveva tolta e conservata quando si era resa conto della fatiscenza del Santétu, nonostante i numerosi tentativi di intervento che alcuni, nel tempo, avrebbero voluto apportare, ma non fu loro permesso se non interpellando con i permessi le Belle Arti, cosa che per loro si rivelò complicata.

In effetti quella zona apparteneva (ed in parte appartiene ancora) alla famiglia Viale, ovvero i miei antenati. Che il manufatto non richiami esattamente elementi cristiani, non mi stupisce. Esistono documenti che attestano un processo per direttissima, inflitto loro dalla Chiesa, ad alcuni miei avi perché "sorpresi a consegnare dell'olio a San Biagio della Cima in giorno di festa"., sorpresi dunque "a lavorare". L'accusa fu di "eresia" e chissà che non ci sia qualche legame con quel manufatto un po' massonico e arabeggiante, insomma, una sorte di "protesta". Chissà. E chissà se Luciano troverà altre preziose informazioni...
Intanto son ben contenta che sia restaurato e che ospiti proprio Sant'Antonio da Padova: destino vuole che io sia nata proprio il giorno della sua festa!


lunedì 28 settembre 2015

Arriva "San Miché" patrono dei traslochi


San Miché, patrono di Pigna, di Mentone e di vari altri centri della nostra zona, è un santo assai popolare. In passato, poteva essere considerato un po' il protettore degli sfrattati, nel senso che chi veniva cacciato di casa doveva raccomandarsi a lui. Infatti, secondo le consuetudini di allora, i contratti di affitto delle case e dei terreni scadevano il 29 settembre, giorno della sua festa. Contratti che, spesso, non venivano rinnovati ed allora non restava che "fà San Miché" cioè caricare su un carro le povere masserizie e gli attrezzi agricoli e fare trasloco.
Curioso notare come, in certe zone della Lombardia, ad esempio, il detto si mutava in "fà San Martin" poiché lì i contratti scadevano invece l'11 novembre, festa appunto di San Martino, come del resto avveniva anche in Piemonte. A questo proposito, è rimasta celebre la frase che Vittorio Emanuele II sembra abbia rivolto ai suoi soldati, il 24 giugno 1859, durante la battaglia di San Martino: "Figlioli, o prendiamo San Martino o gli austriaci San Martino ce lo fanno fare a noi!".
Che San Michele fosse il santo dei traslochi, tanto da diventarne sinonimo, è invece attestato in Provenza con le forme Sant-Michèu/Sant Miquèu. E, a questo proposito, Mistral riferisce di una cuoriosa forma di superstizione alla quale nessuno osava sottrarsi. Chi faceva trasloco, entrando nella nuova casa, doveva introdurre per prime cose: la saliera, i fiammiferi e un mazzetto di erbe odorose.
Tornando al San Miché di casa nostra, va detto che il giorno della sua festa, il 29 settembre, coincideva con il cambiamento del regime delle acque: da San Giovanni (24 giugno) fino appunto a San Michele esse erano adibite ad uso irriguo, mentre i restanti mesi erano da usarsi per il funzionamento di mulini e frantoi.
E, per restare in tema di acque, ma piovane questa volta, non possiamo passare sotto silenzio il proverbio "E aighe de San Miché, o chinze giurni avanti o chinze giurni inderré". Perché, all'inizio dell'autunno, fra la fine di settembre e i primi di ottobre, non mancano mai le piogge ed è tempo di porsi al riparo: "A san Miché ciacün se retira int'u sou carté".


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996, pag 71


mercoledì 16 settembre 2015

Con ciüma e làpisse si ritorna a scöra


In settembre, le vacanze finiscono ed è tempo di scöra. Tornano di scena maistre, maistri e sculari e, per la nostra piccola indagine dialettale, ci fermiamo qui perché la scuola di un tempo era soprattutto, e per la maggior parte dei bambini, esclusivamente quella elementare. Quando andava bene, perché non tutti gli alunni riuscivano a compiere i cinque anni dell'obbligo scolastico. Essi portavano u scaussà, il grembiule, nero per i maschi e banco per le femmine, mentre il colletto, a volte inamidato, era bianco per tutti ma il fiocco di seta, a gassa, era azzurro o rosa, a seconda del sesso.
Niente zaini firmati, ma modeste sachéte di fibra o di stoffa, a volte cucite dalle madri stessa. Dentro, libri, caderni, e portaciüme, i portapenne di legno incavato col coperchio scorrevole. Per scrivere, si usavano ciüma, ciümin, làpisse e güssalàpisse, penna, pennino, matita e temperamatite. Del tutto inesistenti le biro; soltanto qualche privilegiato poteva permettersi la penna stilografica. Sul banco, un oggetto completamente sconosciuto agli scolari di oggi: u caramà, il calamaio di vetro con la sua piccola riserva di inchiostro. Non vi era scolaro che, diventato adulto, non raccontasse di averlo tirato alla maestra. Un altro oggetto indispensabile, la carta sciüganta, la carta assorbente, onde evitare le macchie biasimate dagli insegnanti.
Ma, nelle cartelle e nelle tasche, soprattutto in quelle dei maschi, c'era sempre una scorta di baline e cartine, biglie e figurine che, se scoperte dalle maestre, finivano inesorabilmente chiuse a chiave nei cassetti della cattedra da dove sarebbero uscite per essere riconsegnate ai legittimi proprietari, se tutto andava bene, soltanto alla fine dell'anno scolastico.
Il carattere dialettale di queste note ci offre l'occasione per parlare brevemente dei rapporti scuol-dialetto negli anni che furono. Rapporti sempre piuttosto burrascosi perché scopo della scuola era essenzialmente quello dell'insegnamento della lingua italiana e quindi il dialetto veniva considerato come la “malerba” da estirpare, naturalmente.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996, pag 68

venerdì 11 settembre 2015

Sciütina e secaressa

...e se le previsioni sono giuste, a breve pioverà: 
speriamo con garbo e abbondanza per mettere fine alla sciütina...


Ogni tanto leggiamo sui giornali o vediamo alla televisione, fra le tante calamità naturali che si abbattono sul nostro pianeta, anche casi di tremenda siccità che devastano i territori di interi paesi, specialmente in Africa. E certi anni, l'estate porta anche nella nostra regione uno stato di siccità, non mai grave, per fortuna, come quelli di cui si diceva prima.
Noi, non certo per insensibilità di fronte a questi gravissimi problemi, ci occuperemo come sempre del risvolto dialettale della questione. La siccità, dalle nostre parti, prende il nome di sciütina, un termine che (concediamoci, una volta tanto, il lusso di una parola 'difficile') è un deaggetivale, cioè un sostantivo che deriva da un aggettivo, nel caso specifico da sciütu, asciutto.
La nostra sciütina ha comunque degli illustri antenati, come l'italiano antico 'asciugaggine' e degli altrettanto nobili parenti come il provenzale eissuchino e il piemontese suitin-a. Comunque la sciütina, come voce dialettale, non sembra andare oltre l'area imperiese con la punta di Alassio dove è scittina mentre a occidente la sciütina è tale nel Principato di Monaco.
Con tutto questo, la nostra sciütina può già essere considerata un probabile neologismo, cioè una parola relativamente recente, rispetto alla più arcaica secaressa che troviamo ancora in uso, ad esempio, a Mentone. Un termine derivato dal tardo latino seccaritia che ha poi dato origine al provenzale secaresso, all'italiano antico seccariccio e al francese secheresse. Ma l'elenco dei vocaboli riguradanti il fenomeno della siccità non è ancora finito. Girolamo Rossi, nel suo Glossario medievale ligure, riporta anche la voce sechagna che definisce 'tratto di mare o di fiume a secco' e si riferisce al letto dei corsi d'acqua nei quali la terra si screpola per via della siccità, appunto.
In chiusura, la consueta nota sul linguaggio dialettale che come si sa è sempre ricco di metafore. Chi, guardando il prorpio portafoglio, lo vedeva desolatamente vuoto, non poteva fare a meno di esclamare: «Che sciütina!» come a dire 'che miseria!'


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, Pinerolo (To), 1996 


lunedì 31 agosto 2015

GRADINI di Hermann Hesse

La poesia di Hermann Hesse che ho sempre preferito.


Come ogni fior languisce e giovinezza 
cede a vecchiaia, anche la vita in tutti 
i gradi suoi fiorisce, insieme ad ogni 
senno e virtù, né può durare eterna.
Quando la vita chiama, il cuore sia 

pronto a partire ed a ricominciare,
per offrirsi sereno e valoroso 

ad altri, nuovi vincoli e legami.
Ogni inizio contiene una magia
che ci protegge e a vivere ci aiuta.


Dobbiamo attraversare spazi e spazi,
senza fermare in alcun d'essi il piede,
lo spirto universal non vuol legarci,
ma su di grado in grado sollevarci.
Appena ci avvezziamo ad una sede
rischiamo d'infiacchire nell'ignavia:
sol chi e' disposto a muoversi e partire
vince la consuetudine inceppante.


Forse il momento stesso della morte
ci farà andare incontro a nuovi spazi:
della vita il richiamo non ha fine....
Su, cuore mio, congedati e guarisci!



Hermann Hesse (1877 - 1962)


martedì 11 agosto 2015

Ciao Mario

Presentazione del libro a Bordighera:
Paolo Veziano, Mario Genari, io e Gian Paolo Lanteri

Pubblico la postfazione al libro "Le radici di un percorso" per salutare Mario Genari. In quelle poche righe è racchiuso il significato dell'esperienza condivisa con lui e così pure il suo ritratto. A dicembre avrebbe compiuto 94 anni, ma un uomo "senza tempo" non ha età e il dispiacere è grande.


Il 13 giugno 2008 ho compiuto cinquant’anni e ho organizzato un aperitivo per brindare insieme ai miei più cari amici.
Franco Ardissone, annoverato tra questi, mi ha regalato per l’occasione una bellissima penna, ma il regalo vero e proprio è stata la proposta di scrivere un libro raccogliendo le memorie di Mario Genari, per tracciare il percorso compiuto dall’associazionismo e dal cooperativismo nella provincia di Imperia tramite il suo diretto protagonista.
Ho accettato di buon grado, colma di riconoscenza e consapevole di andare incontro ad un’esperienza che senz’altro mi avrebbe arricchita.
E così è stato. Ed è con una certa e viva emozione che dedico queste righe a Mario.
Nei nostri assidui incontri pomeridiani, durati da luglio a dicembre del 2008, ogni giovedì, nella sede Cia di via Parini ad Imperia, ho avuto modo di conoscere una persona della cui straordinarietà sapevo per ciò che mi avevano raccontato, ma che non avevo mai potuto constatare di persona prima di allora.
Seguendo una debita traccia temporale che ci ha accompagnati nel nostro lavoro, vedevo davanti a me un uomo che nel giro di pochi minuti era in grado di ricordare, con assoluta naturalezza, la storia che eravamo chiamati a scrivere: come aprire un «file» e trovare nitidamente, al suo interno, tutto scritto e conservato.
Al di là della capacità di memoria e della sua pacata ricostruzione, ho avuto modo di percorrere un viaggio umano dentro di me di cui, mi auguro, rimanga sempre traccia. Mario mi ha riportato alla vita, alla gente, ai valori, ai territori, ai confronti; mi ha risvegliato da un torpore in cui è facile cadere al giorno d’oggi; mi ha fatto capire quanta forza può avere un essere umano pur rimanendo nella sua modestia e spesso mettendosi in contrasto con tutti coloro che possono anche ostacolargli il percorso.
Ho visto molti uomini, in Mario; ho avuto la possibilità di riconoscere le ragioni di tutti gli oppressi, il bisogno e il diritto di giustizia, l’importanza della semplicità e dell’umiltà, la vanità delle illusioni cui siamo continuamente sollecitati, la sua profondità di uomo.
Non era sicuro che ce l’avremmo fatta, ma come al solito ce l’ha messa tutta: ha tirato fuori la sua vecchia macchina da scrivere e mi ha preparato parecchie parti nei momenti in cui gli riaffioravano alla mente, riuscendo a stupirmi, di volta in volta, per la sua tenacia e operosità.
Sento per lui riconoscenza, gratitudine, rispetto, amore.
Un uomo che mi ha collegato la mente e il cuore.



Un particolare ringraziamento a Marco Lorenzi,
 autore delle fotografie.


mercoledì 5 agosto 2015

L'inganno del lavoro

La fonte originale di questa analisi è qui  
Per non perdere di vista questo bell'articolo, lo posto anche sul mio blog, sperando lo leggano più persone possibile. Sembra lungo, ma cattura l'attenzione e si legge tutto d'un fiato. Cambiare prospettiva nel vedere la realtà è di somma importanza.



La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile... 

Francesco Gesualdi - Il Fondo Monetario Internazionale ha sentenziato che l'Italia avrà bisogno di 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci sta prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non ne creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua missione come piace dire a chi vive l'economia come una religione.

La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai suoi azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco importa se dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in carne e ossa, con una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare. Per il mondo degli affari il lavoro è solo una merce, è del tempo da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c'è più offerta che domanda , per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti lavoro di quanto siano i posti disponibili.

Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c'è prima stata l'estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito da Papa Francesco come l"economia dello scarto", e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.

Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l'esclusione fa parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui, poverino, vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha bisogno di crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e le aziende assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che si creano nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le macchine alle persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad assistere alla guerra fra lavoratori da un capo all'altro del pianeta, si assiste anche alla guerra dei robot contro gli umani. Lo stanno sperimentando anche cinesi da che hanno osato alzare la testa per chiedere migliori condizioni di lavoro.

Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali, politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la crescita come l'unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo. Presi da quell'impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro alla leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà in nome dell'ambiente, pro crescita in nome del lavoro.

Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la sobrietà è l'unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia è che sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione dilagante. Al contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione. L'importante è convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella storia dell'umanità, l'obiettivo non è mai stato il lavoro. L'obiettivo è stato vivere bene nel senso di avere di che mangiare, vestirsi, viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo noi, figli del mercato, abbiamo trasformato il lavoro in idolo e non perché siamo impazziti, ma perché viviamo in un sistema che ci offre l'acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita. L'unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze.

La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile. La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in modo da interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre parole l'alternativa è l'autoproduzione in ambito individuale, per i piccoli bisogni personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni e servizi fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.

Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al lavoro non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro smetterà di essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel momento non ci sarà più interesse ad escludere, ma a ottenere la collaborazione di tutti. E se dovesse risultare che siamo troppi, potremo sempre dare una bella sforbiciata all'orario di lavoro con somma soddisfazione di tutti perché con meno lavoro potremo avere lo stesso livello di sicurezze.

Capito che l'inclusione passa attraverso il ridimensionamento del mercato e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa da fare è arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico. Basta con la politica delle privatizzazioni. Basta con il taglio alle spese sociali. Basta con una politica di bilancio che dà priorità al servizio del debito. Sì, invece, a una seria lotta all'evasione e ai paradisi fiscali. Sì a una tassazione progressiva dei redditi e in particolare delle rendite finanziarie. Sì a una ristrutturazione del debito. Sì a una sovranità monetaria al servizio dell'occupazione in ambito pubblico. C'è bisogno di politica nuova, ma potremo trovarla solo se saremo capaci di gettare il pensiero oltre il muro del sistema imperante.


, già allievo di don Milani, è fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa), che si propone di ricercare nuove formule economiche capaci di garantire a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali. Coordinatore di numerose campagne di pressione, è tra i fondatori insieme ad Alex Zanotelli di Rete Lilliput. www.cnms.it


domenica 2 agosto 2015

LAMENTO di Hermann Hesse



Non c'è concesso di essere. Sol fiume 
siamo ed in ogni forma c'inseriamo,
per entro la caverna, il duomo, il lume
la notte, e sempre all'essere aspiriamo.

Per l'uomo, benché assuma una sua forma,
patria e felicità son cose vane,
sempre è in cammino ed ospite di norma,
sede non ha, per lui non cresce pane.

Non sa qual sorte Dio gli abbia provviso,
sente che come argilla lo sballotta,
duttile e muta, senza pianto o riso,
che viene impastata, sì, ma mai cotta.

Oh tramutarsi in pietra un dì! Durare!
Di questo abbiamo eterna nostalgia.
Ma un brivido rimane e diventare
quiete non può sulla nostra via.


Hermann Hesse (1877 - 1962)


venerdì 24 luglio 2015

SOBRIETA' NON POVERTA'

José Mujica


Rubato dai social, pubblico questo pensiero di Mujica non negando di essermi commossa mentre lo leggevo.

"La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere."
José Mujica