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venerdì 7 febbraio 2014

Gianì de Fiandre


Erano passati un po’ di anni, ma nulla era cambiato. Spesso, nella vita, si vivono dei periodi di intensa frequentazione e poi ci si allontana: nel ritrovarsi e riprendere i contatti, la confidenza torna assolutamente spontanea come allora.
Gianì aveva sempre quel volto di un tempo, non aveva permesso agli anni di scalfirlo. Rosea, fanciullesca, umile, diversa da quel cliché del luogo di appartenenza, si muoveva con leggerezza, grazia e operosità al punto che, osservandola, sembrava di ascoltare una musica.
C’era una luce lieve ma calda, attorno a lei, che rendeva davvero gradita la sua immagine. Il suo mondo era pulito, organizzato, ordinato e fiorito. Nel suo incessante, ma leggero dinamismo, riusciva a tener dietro a tutto. Anche la sua abitazione, come la sua vita,  si articolava tra modernità e passato, che convivevano nella massima linearità. Era quasi impossibile immaginare tanta facilità a tenere assieme tanti tasselli di differente natura: nell’ambiente abitativo, l’impatto con il restauro offriva l’agiatezza di un vivere quotidiano e moderno che includeva, al tempo stesso, al suo interno, spazi ed anfratti del passato, come cantina, ripostigli, legnaia, lavanderia e cucina da lavoro, senza che intaccassero il «nuovo» e permettendo un’agevole possibilità di muoversi e operare in assoluta disinvoltura.
E Gianì de Fiandre si muoveva in quegli spazi come una melodia.
Anche dentro di lei la vita si svolgeva allo stesso modo. La sentivo attraversare il suo animo in preda alle più ripide paure e al tempo stesso alla tenacia di chi, comunque, non demorde. La sua leggerezza corporea conviveva con fardelli interiori di profondo travaglio, che tuttavia non intaccavano la sua reale natura. Era Gianì de Fiandre, sì “de Fiandre”, perché ricordava quelle donne del nord della Francia sempre immerse nelle loro vicende lavorative, familiari e di donne che non trovano mai tregua, ma che si esprimono con un ordine attorno a sé dotato della migliore grazia.
I fiori, i profumi, l’ordine, la pulizia, la gentilezza ne erano la dimostrazione: non erano molte le persone che sapevano rimandare tale immagine, ma lei sì. Era impossibile non volerle bene, impossibile non accogliere le sue preoccupazioni e offrirle tutto l’aiuto di cui aveva bisogno in quel momento; Gianì de Fiandre, quando si era sposata, aveva attorno al volto, legata sotto il mento, una coroncina di fiori che non mentiva sulla natura della sua anima.
La sua vita poteva essere sembrata facile, ma non lo era stata per niente. Per molte donne, prima del matrimonio, il tempo era trascorso in tribolazione, ma per lei fu il contrario: il rapporto col padre non fu del tipo “conflittuale” e gli anni più difficili le si presentarono dopo.
La costruzione della sua vita, della sua famiglia sembravano fossero state una passeggiata se guardavo inconsapevole al presente, ma sapevo invece quale corsa ad ostacoli Gianì aveva dovuto affrontare.
E proprio per il peso, le ansie, la quantità di difficoltà, le fatiche, le incomprensioni, le stanchezze, le paure, i drammi che Gianì de Fiandre aveva portato su di sé, mi sorgeva spontaneo pensare che ci dovesse essere una forma di espiazione che permetteva agli esseri umani di illuminarsi, essendo capaci di così tanta sopportazione al fine di perseverare per il bene altrui. Soltanto la presenza di una luce interiore poteva sostenere e dare forza in tutti quei momenti che le erano stati davvero insopportabili e di grande sofferenza e che lei tuttavia aveva superato soprattutto senza ammalarsi.
Aveva cercato anche la fede, con tanta forza, quando aveva sentito di non farcela proprio più, aveva pregato devotamente tanto e ne aveva ricevuto beneficio. Ma c’era anche una parte di lei che sprofondava spesso nella disperazione e sfogava nella rabbia, nella bestemmia quasi a cercare uno sfogo liberatorio dai demoniaci momenti in cui la vita la ricacciava.
Io la capivo. Ci assomigliavamo; lei, però, era migliore. Sentivo qual era la forza del suo animo, era la stessa che nutrivo anch’io, era la forza dell’amore, quell’amore che si deve misurare con ogni difficoltà, con ogni fatica, a volte dura e cieca, che non lascia un minimo di spazio ai «perché» e che troppo spesso non riesce a trovare un minimo di ragionevolezza in ciò che accade. E di fronte a quel piegarsi agli eventi e alla sofferenza, tornava la rabbia di dissacrare il tutto, di indemoniarsi dentro e fuori per ritrovare quell’autentica forza nell’amore e vincere la battaglia e regalare al mondo tutta la bellezza possibile.
L’avevo ritrovata intatta, a distanza di anni, rispetto alla sua vera natura. Incontaminata. Migliore. Bella.
Mi aveva ridato la forza di accedere a quella dimensione che non tutti mi permettono di condividere, perché Gianì de Fiandre era unica.
Ero anche andata a salutare sua nipote che lavorava in un ristorante «in» in uno sperduto paesino dell’entroterra ligure. Ero seduta sulla scala di una casa mentre le parlavo e la donna che ne uscì dalla porta, vedendomi di schiena, mi scambiò per la Gianì di quel paese. Si era scusata per essersi sbagliata, ma non potevo farle comprendere fino in fondo quale regalo mi avesse fatto di avermi chiamata con quel nome: e tutto accadde lo stesso giorno in cui mi ero recata, al mattino, nella bella casa ordinata, pulita e con tanti fiori attorno.
Ci sono cose nella vita che vanno oltre alla comprensione della ragione. Non hanno bisogno di spiegazioni, perché «sono» in quanto tali. E’ una fortuna, nella vita, poter incontrare anime in cui specchiarsi in maniera così chiara. Qualcuno li definisce livelli di santità, di purezza assoluta dell’anima, di complementarietà dell’anima. Forse non è neppure necessario affannarsi per cercare una definizione, è già tanto incontrare le persone con cui riuscire a viverle. Hanno del magico, del mistico, del folle, perché permettono di toccare con mano quella perfezione dell’essere a cui si aspira e che così raramente si raggiunge. Ma càpitano, per fortuna càpitano.
Con Gianì de Fiandre accadeva così ed io respiravo nella luce dell’anima sacri momenti di beatitudine e grazia.

Pia – 13 giugno 2010


domenica 3 giugno 2012

Castellaro


Castellaro (Im) - U Castelà
foto di Mattia Anselmi

"Era un clemente pomeriggio di primavera ed era perfetto per andare a Castellaro, anche se il funerale non era certo la motivazione migliore.
Appena raggiunta l'Aurelia, dopo l'autostrada, la nuova strada e la superstrada, la mamma guardava il paesaggio, ovvero la collina sottostante il luogo della nostra méta e mi dice: "Cousa i sun ste sciure gialle? Ina nòva cultivassiun?"[1] Le rispondo: "Na, mama, i sun ravaneli e agrete, gh'è tùtu gerbu..."[2] e in quel momento anch'io mi rendevo conto per la prima volta dell'abbandono che imperversava in quella zona, come in molte altre a ridosso della costa, un tempo prosperose di fiori di ogni genere.
Risalendo la collina, i miei occhi cercavano con insistenza il panorama di Taggia, rischiando continuamente di invadere l'altra corsia e facendomi insultare e strombazzare dalle vetture che incontravo. Era bella, quell'immagine, colma di fascino e poesia... vederla così bene ed insolitamente mi catturava l'occhio e il sentimento. Un tornante mi offriva Taggia, l'altro il fondo valle Argentina e rimanevo spaesata alla vista di un intricato labirinto di capannoni, palazzi, strade e controstrade, ferrovia, laminati e cemento.
Castellaro è disteso sul colle, come Perinaldo. Sono paesi in cui la luce è esagerata, inonda ogni dove e lo spettacolo mi colma. E' bello osservare il suo serpeggiare sulla cresta della collina. 
Desideravo tanto un caffè, ma l'unico bar era chiuso per lutto. "Nei paesi siamo tutti parenti - ho pensato - saranno in lutto per Nino u Basté, così come anch'io sono qui per lui". Invece no, il morto era un altro, il nonno di 99 anni che, già che c'era, poteva aspettare ancora un pò e gli avrebbero fatto una bella festa per i cent'anni ed io mi sarei potuta godere quel caffè tanto agognato.
Avevamo by-passato la messa: impensabile andare alla chiesa degli Angeli a Sanremo in Piazza Colombo, troppo casino, troppo traffico per noi anime contadine. Aspettare davanti al cimitero era la soluzione migliore. Noi eravamo "e furestre"[3], venivamo da lontano, dall'altra parte del mondo rispetto a quelli di Castellaro e ai Baaucògni[4], visto che Nino era un Boeri purosangue.
Su quell'unica panchina, silenziosamente ascoltavo i discorsi della gente: il tipo banfone, le donne bisbetiche, il personaggio più simpatico, il tizio che rifiutava di sedersi perché era già la seconda volta, quel giorno, che si faceva la camminata fino al cimitero perché "caminà u fa ben"[5], fino all'indagine per scoprire come mai quelle "furestre" erano lì al funerale du Basté.
Poi tutto scorre. L'arrivo del feretro, la benedizione, la tumulazione, il "piacere" di rivedere persone che alla fine incontri solo in quelle circostanze, i saluti ed il rientro.
La fine dello scopo per cui ci si reca in un luogo spoglia il ritorno del fascino dell'andata. La realtà riprende i suoi contorni e Castellaro emerge nei suoi dintorni violentata come tutti gli altri paesi dell'entroterra ligure. La cittadella col campo golf, lo scempio a Lampedusa, le case brutte e quel fondo valle diventato ormai un non luogo, perché uguale a troppi altri sparsi dappertutto.
Rimaneva solo Taggia, adagiata al suo posto, a consolare l'occhio e l'anima di una viandante irriducibilmente in cerca di bellezza. Taggia vista da lontano."


[1] Cosa sono questi fiori gialli? Una nuova coltivazione?
[2] No, mamma, sono rapanelli e fiori di trifoglio, c’è tutto incolto…
[3] Forestiere
[4] Badalucchesi
[5] Camminare fa bene


Pia Viale, Castellaro, da I racconti della domenica, aprile 2010

martedì 17 aprile 2012

I dinosauri nel rio Batallo

Rio Batallo

"Il sentiero che portava al vallone era ripido e impervio, anche se ogni anno mio padre dedicava un po’ del suo tempo al ripristino dei passi più pericolosi, rimettendo a posto le pietre dei gradoni che erano state spostate durante l’inverno dai cinghiali o dalle piogge. Ripercorrendo quel sentiero, che costeggiava tutta la campagna, ritrovo nell’archivio della memoria il paesaggio perduto mai dimenticato e torno volentieri nell’alveo del rio Batallo, il piccolo fossato che percorre la vallata da Bordighera a Negi. 
D’estate ci passavamo  pomeriggi interi, io per giocare e la mamma per tagliare le canne e mantenere completamente pulita l’area antistante il terreno coltivato. Il luogo che prediligevo era il grande masso scavato dall’acqua e pieno di buche, che riempivo e svuotavo con piccole pietre, legnetti, foglie, immaginando di cucinare chissà quali prelibatezze. 
Protagonista assoluta di quel mondo, che aveva un non so che di primitivo, era la mamma, che sapeva svolgere un lavoro di manutenzione esemplare, procurando le canne necessarie al confezionamento delle stuoie per la floricoltura, quelle per impiantare i fagioli e i pomodori. Nel contempo tagliava i deboli rovi, le erbe infestanti e i residui delle canne da bruciarsi a fine lavoro ed io, a poco a poco, prendevo confidenza con l’acqua che scorreva ed aspettavo che lei finisse di compiere quella rispettosa opera di dominio sulla natura. Assaporavo il fresco del carpino, l’albero più grande che avessi mai visto, osservavo le lucertole e qualche topo ed aspettavo che tutto il suolo fosse ricoperto dalle cortecce di canna, perché davano un tocco decisamente esotico. Vivevo una dimensione di assoluta sospensione, di cui ero consapevole e contenta, e non bramavo affatto di essere, ad esempio, al mare insieme ai miei amici. Quella solitudine nel gioco e nell’ambiente mi colmava e ogni mia fantasia ricreava all’infinito il piacere di trovarmi proprio in quel luogo.
Il passare degli anni cancella l’infanzia, il vallone perde le nostre presenze e l’alluvione sconvolge ogni cosa. Un triste mattino sento un rombo salire: una gigantesca ruspa gialla interviene per ripristinare l’alveo e spiana tutto ciò che incontra. Salgono camion per caricare detriti e portarli via, li guardo stupita dall’alto delle fasce e tutto mi sembra surreale, sproporzionato, impossibile. Nel silenzio dell’abbandono degli ultimi decenni, era come se fossero tornati i dinosauri, laggiù dove la mamma ed io passavamo pomeriggi esotici."

Pia - novembre 2011   "Racconti in 2.500 battute"


sabato 13 febbraio 2010

L'incontro con...


La serata dei furgari era ormai finita.

Erano le due passate e Paula aveva appena lasciato l’abitazione del Buìn, dopo una cena e una baldoria degne del loro nome.

L’allegria aveva imperversato anche se il vino buono presto era finito e quello che girava sulla tavola non era affatto interessante: piuttosto che bere male, pensò, è meglio non bere.

Martial, il paraguayano, aveva suonato con vigore la sua chitarra per tutta la sera: i ritmi sudamericani sono quelli che meglio di ogni altro si adattano a creare calore e armonia. Ognuno cantava senza nessuna soggezione, trasportato da quel bohèmien che per tutta la vita non aveva fatto altro che suonare e cantare.

Paula salì sulla sua macchina, erano le due passate e sapeva benissimo che rientrare a casa, a quel punto, era logico e doveroso. Girò attorno alla chiesa dei domenicani, attraversò la piazzetta in cui ardeva ancora il falò e notò alcuni ragazzi intenti a cuocersi alcune rostelle sulla brace.

Appena finita la discesa avrebbe dovuto svoltare a U sulla destra, ma il suo sguardo fu attratto da un carugio che immetteva nel paese, dove lei sapeva avere un sospeso.

Oltrepassò un segnale di divieto di sosta posto a mezzo della stradina, urtandolo leggermente col retrovisore destro, trovò con facilità un parcheggio per la macchina, si imbacuccò quanto necessario e si avviò in Via Lercari alla ricerca di Vico Brea.

Taggia sembrava imponente, appena “usata” da centinaia di persone per consumare quel centenario rito dei furgari, che restituivano alla gente il senso della festa all’esterno, tipico dell’estate, in pieno inverno: sembrava una signora un po’ sbrodolata, col trucco sfatto, ma maestosa, come sempre.

Quei punti in cui ardevano i fuochi con alcuni irriducibili attorno avevano un che di letteralmente medioevale: il tempo poteva essere abolito e quel salto di secoli accadeva in un attimo.

Attraversando Via Lercari, notò che Taggia non aveva subìto negli ultimi anni quel lifting che invece a Vallebona aveva trasformato completamente il paese: lì per lì provò una sensazione di abbandono, di disagio, di fatiscente, ma subito ritovò la vera dimensione in cui era giusto porsi. Erano borghi antichi e tali dovevano rimanere: appena sbucò nella via principale, il ventre di Taggia la inghiottì e si sentiva felice.

Ma quel vicoletto cieco, dove si trovava?

Mentre si stava guardando attorno, sbucò uno dei pochissimi ragazzi di Taggia che conoscesse, il mancino, che con il suo cappello da brigante rafforzò la sua sensazione medioevale. Gli chiese istruzioni e le indicò prontamente la strada per raggiungere la sua meta: è proprio vero che quando le cose devono andare a buon fine non ci sono ostacoli che tengano.

Quei selciati a ciape grandi di pietra le davano un senso di solennità, di forza, di un operato mai più eguagliabile al giorno d’oggi; ripensava anche al fatto che solo a Taggia e a Vallebona ci sono i carugi lastricati con la pietra di Verezzo, con quella particolarità di presentare tre tagli sulla sua facciata e posata a file intercalate da un mattoncino rosso messo di costa: in nessun altro paese le capitò mai di vederle.

C’erano fuochi, persone perfettamente sconosciute che camminavano nella sua direzione e in quella contraria, probabilmente alterate, ma Paula era serena, sapeva che la sua meta era vicina e conosceva le “vie dei persi”, perché erano state anche le sue.

E finalmente una musica assordante le indicò che la cantina dove un tempo si faceva il vino e si confezionava il plumosus era quella di Jaime.

L’aveva intravisto, alla presentazione di un libro, mentre parlava con un comune amico, aveva carpito il nome del suo blog ed aveva iniziato a seguirlo.

Poi venne fuori la storia della discarica e i giornali pubblicarono un suo ritratto, dato che era uno dei principali promotori del comitato di difesa della valle destinata ad accogliere la rumenta.

Insomma, aveva un’idea della sua fisionomia, in un attimo lo individuò seduto su di un banchetu e si presentò dicendogli una frase che egli stesso aveva usato nelle mail di invito agli amici: “Sono sobrio fino alle 23”. Subito non capì, ma fu questione di un attimo e la sua sorpresa, visto anche l’orario, fu massima.

Incontrare realmente un amico virtuale si rivelò una cosa del tutto particolare: sembrava di conoscerlo non da “sempre”, ma da “dentro”. Una bella sensazione.

Lo scopo era quello di vederlo, di donargli una copia dell’unico libro che aveva scritto, di appurare che quella conoscenza da “dentro” fosse veramente tale.

La gente attorno a lui era la più svariata: capelli rasta, sciarpe kefiar, orecchini e pince, cappelloni, sballati di ogni genere, a cui lui aveva aperto la porta. Non era difficile per Paula capire che la natura con Jaime era stata generosa: bello, intelligente, sensibile, ma soprattutto umano.

“E’stata la più bella sorpresa della serata”, le disse e quello fu il suo regalo.

Si ritrovarono l’uno di fronte all’altra a parlare come se si fossero conosciuti da sempre. Fluivano gli argomenti, la voglia di dirsi tanto, tutto, quasi per consolidare in quell’unica mezz’ora la consapevolezza che le loro menti si erano incontrate e capite.

Nel suo nomadismo senza tempo, Paula abbatteva facilmente la sua reale età e trovare una persona così la riportava di colpo nella vita. Si affezionava subito, di quell’amore in senso lato, che nulla chiede se non la sola scoperta che tali esseri esistono. Era come aver conquistato una montagna; d’ora in poi Jaime avrebbe fatto parte delle sue conoscenze come qualcosa di prezioso a cui dedicare pensieri e consapevolezze condivise, ma soprattutto sarebbe stato “acquisito” a tutti gli effetti in quel mondo di anime belle che da una vita collezionava.

E lì, per sempre, sarebbe rimasto.


Pia - 16/02/2009