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domenica 14 febbraio 2016

Sull'amore

Hermann Hesse

"Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che da valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla.C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere; vuole soltanto amare."


Hermann Hesse - “Sull’amore”

Dalla pagina di FacebooK de "Il cenacolo intellettuale" di oggi.


domenica 4 ottobre 2015

Civezza

Civezza (Im)

"Che volete di più? Paese in mezzo agli ulivi e alto sul mare; per arrivarci si passa in una sinfonia di tronchi, di rami: l'orizzonte si apre, oltre che sul mare, su altri paesi dai nomi bellissimi, Pietrabruna, Boscomare, su crinali che se ne vanno lontano, come melodie su flutti d'argento; le case e le piazzette sono antiche, di un'intimità raggrumata nel vento. C'è un che di sospeso, di dolce, di lieve, una vertigine che viene dalla luce in ascesa.
Più su del paese, più su degli ulivi si stende la macchia mediterranea con strade polverose e chiese e sentieri e ovili rosi dai cespugli. La grazia, che sotto era fragile, si fa rude, si accorda fuori del tempo alla forza del mare. Poiché le prime alture, bisogna pur dirlo, sono le più indifese, di un equilibrio che se si tocca si rompe.
Collocata su un costone, arenatavi come una barca, Civezza è fragile e leggera, una nuvola che vi si accosti sembra trascinarla. Basta un palazzo sghembo per offenderla, e una macchina che passi in un vicolo disturba i morti. E' un paese cha ha bisogno di vivere intatto come un ricordo.
Di che sia frutto questa bellezza rimane un mistero: vicoli e cascate di ulivi non bastano a spiegarlo. Che venga dal fatto che ha, sotto, la luce instabile del mare e, sopra, quella più ferma di un paesaggio montano?"


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, G. Einaudi editore, Torino, 2008, pag. 156



martedì 19 novembre 2013

I verticali e gli orizzontali


Ci sono i verticali, che sperimentano successivamente, che s'impallinano di persone e di cose lasciando l'una per l'altra, che recalcitrano e soffrono se un'antica loro infatuazione torna a tentarli mentre sono dediti a una nuova. Sono i romantici, gli adolescenti eterni. 
Ci sono invece gli orizzontali, che accostano la loro esperienza a una vasta gamma di valori ma contemporaneamente, e sanno entusiasmarsi per persone e cose senza rinnegare le già conosciute, che dal foco di una calma, di una certezza interiore traggono l'energia per dominare e contemperare le infatuazioni più varie. Questi sono i classici, gli uomini.

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Nuovi Coralli, Einaudi Editore, Torino, 1973, pag. 205


martedì 15 ottobre 2013

Per una donna

Pierre Auguste Renoir - La colazione dei canottieri (part.)

"Lei era diversa, sembrava che nemmeno poggiasse i piedi per terra quando camminava. Aveva quell'aria sognante ma i suoi occhi erano attenti. Era dolce ma sapeva allontanarti con uno sguardo, era piena di "quel non so che"; aveva un mondo dentro che teneva ben nascosto, e lui ne era affascinato. Non sapeva mai cosa aspettarsi, e era bella, non bella da esposizione ma bella da amare, da stringere forte, da riderci insieme, da scherzare come due bambini. Era piccola, da abbracciare con cura, e faceva paura, il suo sorriso esagerato non copriva il dolore in fondo ai suoi occhi... e lui, perdendosi in quegli occhi, non avrebbe potuto fare altro che andare via e dannarsi l'anima per il resto dei suoi giorni, o innamorarsene perdutamente."


Vjollca Lika

giovedì 29 agosto 2013

Sguardi sulla riviera di ponente

Costa ligure - Ventimiglia
Foto Marco Lorenzi

"Ho pensato, non so dire da quando, che la Liguria tutta vada vista da una finestra. Da qualsiasi finestra di Liguria ciò che si vede è prima che un paesaggio un'idea di ciò che è la Liguria.
Le finestre sono tante, piccole, più grandi, a volte minuscole. Ma ciò che si vede da ognuna di quelle finestre è qualcosa di unico e imprendibilmente uguale. Perché la Liguria è imprendibile nella sua totalità con lo sguardo. Lo spicchio di mare, il carugio, l'angolo di piazza, la fascia d'ulivo, la roccia che sporge, la curva, il sentiero che sale, sono tutti diversi, bastano a renderli tali pochi centimetri di dislivello, un'angolazione appena sfalsata. E' questa visione che dà l'idea di un panorama che và al cuore della terra, la terra ligure, della sua identità. C'è una geometria di piani sfalsati e una visione curva che naturalmente coincide e incanta.
La Liguria và vista da dietro a una finestra."

Nico Orengo, Terre blu - Sguardi sulla riviera di ponente, Il melangolo, Genova, 2001


domenica 4 novembre 2012

D'ottobre, Francesco

Perinaldo (Im)

[...] Il paesaggio? E' destino umano abitare un mondo. Un'opera d'arte nasce da un rapporto della coscienza soggettiva con la storia e con la natura. Il paesaggio che mi vedo sempre davanti agli occhi è quello ligure. Le storie in genere le invento, raccolgo e solidifico una sparsa atmosfera.
Non denuncio, descrivo un disagio. La terra forse insegna la calme, la ricerca della verità. Amo le radici nella terra, ma anche il cielo e il cosmopolitismo. Ben vengano altri popoli, altri individui, colgono anch'essi il significato delle rocce e dei cieli.
Ho col dialetto un rapporto ambiguo, a volte mi pare di un'acre verdezza, a volte morto, stucchevole, specie se ostentato.
La mia giovinezza fu priva di tutto, di libri, di cultura, di scuola; fu angosciante, mutilata. Forse per questo mi piacciono gli emarginati, coloro che hanno una vita nuda, dove tutto è paesaggio, transito, clandestinità. L'uomo è l'essere delle lontananze. "Glissez mortels, n'appuyez pas" (Scivolate mortali, non appoggiatevi). E' una sentenza dell'antica Francia, che mi ripeto sovente...
La donna e la morte sono sogni che si sprigionano all'improvviso. Portano a investigare nella mitologia dell'anima.
Amerei scrivere un giallo senza fatti, per mutamenti interni, oppure un libro di cieli.
Nella vita c'è sempre una mutilazione.

Francesco Biamonti, Scritti e parlati - Breve nota autobiografica, Einaudi, Torino, 2008, pag. 17


venerdì 26 ottobre 2012

Della solitudine


Foto presa dal web

La massima sventura è la solitudine, tant'è vero che che il supremo conforto - la religione - consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico. L'opera equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà. Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con altri. Così si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie. Perché poi qui stia la felicità, mah! Perché si debba star meglio comunicando con un altro che non stando soli, è strano. Forse è solo un'illusione: si sta benissimo soli la maggior parte del tempo. Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versare e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri. (Il sesso è un incidente: ciò che ne riceviamo è momentaneo e casuale; noi miriamo a qualcosa di più riposto e misterioso di cui il sesso è solo un simbolo, un segno.)

Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino, pag. 142


martedì 2 ottobre 2012

Il caffè, la mattina


"Il caffè al bar, ogni mattina, è un'abitudine, un vizio, una necessità?
E' un momento della giornata, una partenza, un confronto, un discorso che non ha inizio e e non ha fine, un incontrarsi, uno scambio, ma per me, nello specifico, è una vera e propria scuola.
Nella mia particolare condizione di "uoma" - ovvero di donna che si è ritrovata a svolgere volutamente ruoli maschili - non potendo più disporre della presenza e dell'esperienza di mio padre, devo ammettere che la frequentazione del bar mi ha aiutato tanto: ogni giorno ho avuto modo di confrontarmi con altre persone che svolgevano la mia stessa attività, cercando di capire le cose, ascoltando consigli che mi hanno permesso di risolvere problemi anche grossi, rimettendomi alla loro esperienza molto più ricca della mia e condividendo per anni ogni giorno di vita lavorativa.
E sono molto grata a tutti coloro che si sono avvicendati a questo momento di condivisione e di incontro, perché per me è stato davvero importante: inutile negare che Flavio de Pinéta è stato ed è tuttora il mio maestro.
Eppure la scuola e il bar sono sempre stati due concetti antitetici; ma in questo caso hanno coinciso perfettamente!
E poi, il bar è sempre stato il posto dove si fanno i prezzi migliori..." *

* L'attività floricola è assoggettata al mercato, i cui prezzi variano giornalmente e a seconda della capacità contrattuale del floricoltore. Ovviamente ognuno riferisce un prezzo, della cui veridicità è difficile accertarsi: spesso, nel bar, c'è qualcuno che "gonfia" l'importo, per cui si è coniata la dicitura in corsivo che chiude il brano.


Maria Pia Viale, Un viaggio chiamato ginestra. Breve storia della floricoltura di Vallebona, 2007, pag. 84-85


sabato 14 luglio 2012

Davanti al mare

Mar Ligure
Foto di Arturo Viale

"Per me il mare è questo contraltare luminoso alla terra, questa poetica della lontananza e della luce. Non sta a me dire che cos'è il mio mare, è un mare di diamanti estremi, dell'ora che passa coi suoi diamanti estremi, dell'estremo limite dell'umano, dove l'umano si perde e naufraga.
Per un ligure credo sia sempre stato un elemento del paesaggio. E' il varco, ma anche il deserto.
[...] Noi in dialetto diciamo 'la marina' , quindi per noi è madre, come per Dante: 'Vidi il tremolar della marina'. 
[...] Ci sono dei rimandi luminosi che sollecitano l'immaginazione e l'immaginazione è quella che riscatta in fondo la condizione umana, il trasferimento del sogno nello spettacolo stesso della realtà.
D'altra parte la mobilità delle onde richiama l'andamento del sogno. Se tu dormi con la finestra aperta sul mare, ti senti cullare come se fosse un sogno sotterraneo che ti porta.
E' difficile parlare del mare, inventare metafore nuove sul mare. Ho cercato adesso di inventarle trasferendone i riflessi nel cielo, un mare che compone a poco a poco un'immagine del morire, ma che ha dei varchi diafani che fanno intravdere anche un certo al di là.
Parlare del mare è quasi impossibile, bisognerebbe avere un vocabolario nuovo; parlandone lo si tradisce, è da ascoltare in silenzio".

Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Davanti al mare, Giulio Einaudi editore spa, Torino 2008, pag. 89-90-91


lunedì 18 giugno 2012

Del mondo contadino

 
Contadino lucano

"Quando, nei primi giorni, mi capitava di incontrare sul sentiero, fuori dal paese, qualche vecchio contadino, che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi e mi chiedeva: - Chi sei? Addò vades? - Passeggio, - rispondevo, - sono un confinato. - Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male -. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna.
Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dèi dello Stato e della città non possono avere culto fra questa argille, dove regna il lupo e l'antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello delle bestie e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l'uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. E' un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti".

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Giulio Einaudi Editore, Torino 1945, pag. 78


sabato 9 giugno 2012

Palomar

Italo Calvino (1923 - 1975)

"In un epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l'abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto passa settimane e mesi in silenzio."

Italo Calvino, Palomar, Einaudi, Torino 1983, pag. 104


venerdì 1 giugno 2012

Dolceacqua

Dolceacqua (Im) - Dussaiga

"Se si incontra qualcuno di Dolceacqua lontano dal suo paese, magari a Parigi o in Germania, egli ne parla con tale fervore che il suono della sua voce già languido e cadenzato si scioglie in un gorgoglio che gli si strozza nella gola. L'emozione è forte, troppo forte. Sarà il ricordo del castello, del torrente, del ponte medioevale, del quartiere detto Terra, forse in opposizione alle rocce che lo sovrastano e all'acqua che scorre ai suoi piedi. E' un paese in crescita nella memoria. Monet diceva che dipingerlo era difficile, ci volevano diaspri e pietre preziose. La luce vi scende obliqua e netta, la luce rimbalza sui tetti, gli ulivi, l'acqua.
L'ho visto una sera nel giuoco delle sue colline. Calavo per la strada dell'Addolorata. Saliva dal mare un celeste arioso e l'ombra era viola sotto gli ulivi; si profilava sul crinale che va ad Alpicella la chiesa di San Gregorio. Si formavano abissi nell'aria e i valloni erano pieni di dolcezza, un magaglio dimenticato sulla sponda di una terrazza sembrava sacro.
Le terrazze della collina, anzi delle colline, non finivano mai di salire, ora più ampie, ora più strette, a volte distese a golfo, a volte acuminate. E' un'ascesa fatta di ulivi e vigne, mescolata a un cielo che è già di Provenza.
Sotto quel cielo che lo ravviva, il paese ha un tono antico, un velo, una polvere di secoli. Bisogna andare cauti nel toccarlo. Basta uno squarcio ed è finita."

Francesco Biamonti, Dolceacqua, da Scritti e parlati, G. Einaudi editore, Torino 2008, pag. 155


venerdì 2 settembre 2011

Dei romanzi



"I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s'allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi di quell'epoca in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora esploso, un'epoca che è durata su per giù cent'anni, e poi basta."

Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino 1979, pag. 8


venerdì 26 agosto 2011

Le stagioni della vita - Infanzia


"La fucina del fabbro era tutta nera di fumo, con una grande bocca accesa, lingueggiante di fiamme rosse e azzurre. Nel centro era l'incudine percossa, a intermittenza, da gran colpi di maglio che illuminavano l'aria, tant'erano felici di suonare e di narrare intorno che lì si lavorava. Nei giorni in cui c'era da temperare il ferro tutta la campagna circostante sapeva il gran da fare del fabbro; il metallo, morso dal fuoco e battuto dal martello, strideva tra una gloria di scintille.


L'altra officina invece era tutta bianca e odorosa di legno fresco. Al grido spiegato del maglio rispondeva con il fitto e discreto picchiettare del martello, col canto dentato della sega, col mormorio sommesso della pialla. E tanto il fabbro era tarchiato e fuligginoso, altrettanto il falegname era sottile, esile e bianco, come una tavola piallata.
Da quelle due officine uscivano i buoni strumenti della vita: i vomeri per aprire la terra, le falci per mietere il frumento, le tavole per sedersi e mangiare, i cassetti per la biancheria stirata, le seggiole per far riposare i vecchi, con la pipa in bocca, sulla soglia di casa; e anche le casse per distendervi i morti. Di tanto in tanto si vedeva comparire uno di questi mobili, fuori dalla porta del falegname; e la gente, che conosceva vita e morte del paese , le guardava e diceva: « È la cassa per il tale... »
Deposta lì, tranquillamente al sole, non faceva alcun senso e suggeriva solo un requiem aeternam per quel tale cui era servito, per l'utima volta, il lavoro degli altri uomini per poter andare decorosamente a dormire.

A guardarsi attorno, dal falegname al fabbro, al mugnaio che dava al paese la farina, al contadino che dava il grano e l'insalata, al muratore che faceva le case, c'era tutta un'aristocrazia del lavoro e della vita, blasonata da visi bronzei e da muscoli robusti, da mani dei poveri, larghe e callose, piene di sangue e di nervi duri, per preparare gli strumenti della vita.
Solo le mani del parroco erano bianche, perché doveva toccare il Signore. Non che il curato fosse meno operoso del fabbro o del mugnaio, ma il suo lavoro di insegnare, di comporre dissensi, di visitare malati e di offrire il sacrificio a Dio, non gliele incalliva, ma pareva gliele rendesse sempre più diafane ed esangui."

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca, Einaudi - Frontiere 2011, prefazione di Rossana Rossanda.
Il brano è tratto dalla seconda parte del libro, intitolata Le stagioni della vita - Infanzia
By Gian Paolo Lanteri