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martedì 1 gennaio 2019

Nei "Duzàiri" tutti i segreti dell'anno


In passato, quando i satelliti meteorologici erano del tutto sconosciuti, la sapienza popolare aveva già escogitato un ingegnoso sistema per le previsioni del tempo, e per giunta a lungo termine. E oggi c'è ancora qualcuno, specie nelle zone rurali, che ricorre a questo antico metodo.

Si trattava di fare i Duzàiri o e Duzàire (parole derivate dal numero dialettale duze, ovvero dodici), una pratica che consisteva nell'osservare le condizioni del tempo durante i primi dodici giorni di gennaio e da ciò pronosticare l'andamento meteorologico dei mesi dell'anno. Così a giorni sereni o piovosi avrebbero corrisposto mesi di bel tempo o di pioggia, a giornate calde o fredde mesi afosi o rigidi.

L'usanza, diffusa in tutta la Liguria, si chiamava calèndie nell'imperiese e calàndria o calàndre rispettivamente nell'area genovese e savonese. Una particolarità può essere considerata quella del dialetto di Buggio, in alta Val Nervia, dove è in uso (o almeno lo era) la parola diair(i)e.

Volgendo lo sguardo fuori casa, scopriamo che in Spagna l'usanza esisteva con il nome las cabañuelas, come ci assicura Pedro De Alarcon nella sua novella El año campesino, l’anno contadino, in Nouvelas cortas, Madrid 1955. In questo saggio, l’autore enumera le varie tappe dell’anno, viste nell’ottica dei contadini, per i quali la divisione del tempo non avveniva in base alle date del calendario, ma secondo lo svolgersi dei cicli naturali. Da altre fonti autorevoli, sempre spagnole, si viene a sapere che l’osservazione delle vicende meteorologiche, ai fini della previsione, riguardava i primi 12, 18 o 24 giorni di gennaio e di agosto. In questo modo la validità del pronostico si prolungava fino ai mesi dell’anno successivo.

Anche presso la comunità albanese in Italia, si pratica questo antico sistema di previsione del tempo. Soltanto che i 12 giorni presi in considerazione non sono i primi di gennaio, ma quelli che precedono la festa di Natale, cioè dal 14 al 25 dicembre. Come si dice: paese che vai, usanza che trovi.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia di Ventemigliusi, 1996, pag. 12



sabato 30 aprile 2016

Mario Genari, partigiano Fernandel

Medaglia d'oro a Mario Genari, partigiano Fernandel

Il 25 aprile, in Prefettura ad Imperia, sono state assegnate 63 medaglie d'oro a coloro che si sono distinti durante la Resistenza. Anche Mario Genari, partigiano Fernandel, è stato insignito di questo importante riconoscimento, ma dall'agosto scorso egli non è più tra noi e i figli Antonietta e Giorgio hanno ritirato l'onorificenza.

Antonietta Genari ritira la medaglia d'oro della Liberazione 

Per ricordarlo, riporto alcuni passi tratti dal libro Le radici di un percorso. Associazionismo e cooperativismo in provincia di Imperia in cui raccolsi la sua memoria: 

"Il 1942 fu un anno decisivo e di forte svolta: in Africa e nella campagna di Russia erano solo bastonate; la mancanza di prodotti alimentari e di beni di prima necessità, come vestiti, scarpe, gomme per le biciclette, prodotti indispensabili per l’agricoltura si accentuavano, al punto che i contadini mettevano le monete di rame nell’acido muriatico, aggiungevano calce e ottenevano la poltiglia bordolese utilizzata come verderame da poter dare alle viti. La crisi alimentare colpiva particolarmente le zone urbane, per cui l’esasperazione della gente cresceva in modo esponenziale: si sentiva gridare, protestare anche se c’era la dittatura. Lo spettro della fame e l’assenza degli uomini nelle famiglie (i nativi dal 1910 al 1920 erano tutti reclutati) diventarono elementi sufficienti affinché le coscienze diventassero consapevoli dello stato delle cose".


 Mario Genari ed un amico partigiano a Montegrande

"La popolazione nutriva una forte avversione per la guerra. Quando qualcuno era reclutato, gli amici gli consigliavano di non esporsi, di fare il possibile per salvarsi dall’andare in guerra. Questi consigli erano la regola che comunemente seguiva la gente dell’entroterra, anche coloro che simpatizzavano per il fascismo. Era un sentimento che già aleggiava nel 1940, benché l’ipotesi di perdere non ci fosse, dato che l’esercito tedesco aveva fatto capitolare la Francia, invaso i Paesi dell’Europa dell’Est e stava puntando su Mosca e Stalingrado: mezza Europa era sotto il dominio nazista. La ricerca di raccomandazioni per evitare di andare a combattere era largamente diffusa: chi conosceva graduati non esitava a chiedere di essere riformato, così come la richiesta di certificati medici che evidenziavano difetti fisici era uti
lizzata allo stesso scopo. Anche tra i caporioni fascisti era diffuso il tentativo di evitare la guerra, imboscandosi negli uffici o nei ruoli più svariati".


 "Alcune popolazioni contadine dimostrarono una grande collaborazione con i partigiani, altri paesi meno. Tra i componenti delle formazioni partigiane e i vari comandi vi erano persone motivate da ideali politico-sociali; altri che fecero le prime esperienze di un movimento collettivo, finalizzato a porre fine alla guerra, ed altri ancora che ne approfittarono per sfuggire al reclutamento. C’era l’organizzazione militare e c’era pure un volontariato locale che dava un contributo di informazioni e di difesa. Tuttavia la collaborazione del mondo rurale fu fondamentale: ad esempio, quando un partigiano doveva spostarsi da un luogo all’altro e non sapeva se avrebbe potuto incontrare i tedeschi, qualsiasi cittadino incontrato sulla propria strada rilasciava sempre informazioni a favore del partigiano. Quel mutuo rispetto fu qualcosa che portò frutti anche dopo la guerra, quando la necessità di organizzarsi vide accrescere la credibilità delle associazioni di sinistra". 


E riporto anche la mia riflessione che scrissi alla fine del suo racconto riguardante il capitolo dedicato alla Resistenza: 

"Da questa pagina di storia, voluta dalla gente e non dal potere, sono state educate intere generazioni all’antifasciamo. Era naturale ricevere quel messaggio, era scontato difendersi da quei principi, anzi si cresceva pensando che era un capitolo chiuso, che «nessuno poteva più pensare o agire in quel modo». Il fascismo era stato annientato, la lotta partigiana aveva liberato l’Italia dal male e le divergenze politiche riguardavano solo le sinistre e la Democrazia Cristiana… Quanto abbiamo fatto male i conti! Nell’arco di cinquant’anni si sono avvicendate le ideologie tra nascite, rinascite e dissoluzioni in una complessità che soltanto il senno di poi ci permetterà di capirne i perché con maggior chiarezza. Una cosa tuttavia mi appare chiara nell’immediato: terreno fertile al rinascere del fascismo è la caduta dei valori, dell’etica, che si crea per un insieme di meccanismi socio-politico-economici e che espropria l’uomo sia di credo che di forze, perchè rinascono le destre quando l’uomo è annichilito.
Ed io, nata alla fine degli anni Cinquanta, ho un pensiero di tutto rispetto per coloro che hanno combattuto in prima persona per quella causa e mi sento anche responsabile di non aver saputo difendere il loro operato. Mi perdonino e sappiano che ne ho consapevolezza".

Mario Genari, compagno, partigiano, cooperatore, sindacalista, padre, amico, sempre dalla parte dei deboli, sempre umile e lucidissimo. 
Una medaglia d'oro meritatissima.


domenica 28 febbraio 2016

"Purtugalu" e "sitrùn"

Purtugalu (arancia), di forma tondeggiante


In una denuncia di furto, avvenuta nelle campagne di Ventimiglia nel 1785, si legge che i ladri "avevano portato via ortaglia e arance o sia portogalli". Poiché gli agrumi erano una voce importante dell'economia agricola del passato, proviamo un po' a ripercorrere la storia di questa parola con la quale, in dialetto, si indica sia l'albero che il frutto. Essa ci ricorda che le piante di aranci, originarie della Cina, furono introdotte in Europa dai portoghesi circa 600 anni fa, e che dal loro paese, il Portogallo, presero il nome. Nome che, nell'italiano antico era "portogalli" poi facilmente dialetizzato in purtugali e diffuso nella Liguria di ponente con propaggini che raggiungono il nizzardo e il Piemonte occidentale. Anche in questo, come in altri casi, la Liguria linguistica si spacca nettamente in due col purtugalu usato ad ovest e sitrùn o setrùn al centro e nel levante. "Portûgâ, arancia di Portogallo" lo definisce il Casaccia, ma altri dizionari genovesi danno, come più antica, la voce setròn, che poi si diffonde ed è in uso anche ai giorni nostri ad est fino all'area spezzina.

Sitrùn (arancia amara), di forma più appiattita sul fondo


Col termine sitrùn/çitrùn, si intende invece, qui da noi, quella pianta e relativo frutto che il Nuovo Glossario medievale ligure definisce "Citronus, arancio amaro" chiamato dai botanici Citrus vulgaris e che, nell'autorevole La Mortola Garden, il catalogo del Giardino Hanbury edito nel 1938, è riportato come Citrus Aurantium L. varietas amara. Si trattava di una pianta molto coltivata nella nostra zona per le essenze che se ne potevano ricavare, data anche la presenza in loco di distillerie.
La botanica ci ha fatto dimenticare il dialetto, al quale però torniamo subito con l'aggettivo purtugalau che significa color arancione, simile a quello della peröglia, la buccia dell'arancia. Purtugalau era riferito specialmente al colore che certi vini bianchi assumono invecchiando. E, per finire, la parola galu che in dialetto vuol dire sì "gallo" ma anche "spicchio" sia dell'arancia che del mandarino.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Alzani Editore, Pinerolo (To), 1996, pag. 83


venerdì 5 febbraio 2016

"Giancheti" gustosi, ma sempre più cari


Benché il loro prezzo aumenti vertiginosamente, divenendo di anno in anno sempre più proibitivo, quando arriva il mese di febbraio, eccoci un'altra volta alla stagione dei giancheti. Si tratta del minuscolo novellame di acciughe e sardine che, un tempo, veniva pescato qui da noi con una grande rete a sacco, tirata dalla spiaggia e chiamata u gianchetà.
Il nome italiano non si discosta granché dall'italiano "bianchetti" e trae origine dal loro colore biancastro che questi pesiolini assumono dopo essere stati pescati. E, una volta tanto, i giancheti, dialettalmente parlando, sono tali in tutta la nostra regione, dal Roia alla Magra, compresa, a occidente, l'appendice ligure di Monaco.
Dopo di che, i giancheti cedono il posto a nonnats franco-provenzali, che sarebbero poi i pesci neonati. Ma, spiccando un bel salto, di circa cinquecento chilometri attraverso la Francia meridionale, li ritroviamo trasformati in chanquetes, parola che gli spagnoli usano per indicare, per l'appunto il novellame delle alici.
e, a proposito di quest ipesciolini, ecco un proverbio tratto dal grande libro della sapienza popolare: L'è megliu atacasse a a testa d'in gianchetu che a a cua d'ina balena". Come a dire: a volte, è più facile che l'aiuto ci giunga da persone di poco conto che da quelle importanti e potenti.
data la squisitezza dei piatti che si possono preparare con questa specialità marinara, a questo punto è quasi d'obbligo concedersi una piccola pausa gastronomica. Quella dei giancheti bolliti e conditi con olio e limone, o dei fresciöi de giancheti, le gustose frittelle con farina, olio, aglio e prezzemolo. Per nulla disprezzabile nemmeno una bella menestrina de giancheti, minestrina con pasta fine, sedano e cipolla.
Tutte cose che, soltanto a pensarci, fanno venire l'acquolina in bocca e di cui, portafoglio permettendo, ci si può sempre togliere la voglia almeno una volta all'anno.



Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Alzani Editore, Pinerolo (To), 1996, pag. 19


mercoledì 20 gennaio 2016

Nel Medioevo le origini di "rümenta"


Ai giorni nostri, generalmente le parole emigrano con sempre maggiore frequenza dalle lingue ai dialetti, basti pensare ai numerosi italianismi e anglicismi che siamo costretti ad usare quando ci esprimiamo nella nostra parlata ligure. Ma, qualche rara volta, si verifica il fenomeno contrario, cioè quello di parole dialettali che la lingua fa proprie, E' il caso del termine rümenta che ormai vediamo usato sui giornali sempre più spesso, anche perché il problema dei rifiuti è uno dei più gravi del nostro tempo e la sua minaccia aumenta di giorno in giorno. Fino a qualche anno fa, la rümenta, negli articoli e nei titoli giornalistici, appariva virgolettata e portava ancora tanto di dieresi. ma ora questi segni tipografici particolari tendono a sparire e questa è la prova che parola si sta sprovincializzando ed è sul punto di acquisire la cittadinanza linguistica italiana fino a che qualche vocabolario (se già non l'ha fatto) la riporterà come voce dialettale passata all'uso corrente.
Ciò per quanto riguarda il presente e il futuro. Se però volgiamo lo sguardo al passato, cioè alla storia della parola, noi la troviamo già attestata, sia pure raramente, nel latino, dove, come derivato del verbo radere, voleva dire "scheggia, piallatura di lavorazione, truciolo". E' nel Medioevo che diventa rümenta acquistando il significato specifico di immondizia, lo stesso che Mistral attribuisce alle voci provenzali ramento e remento. Negli antichi Statuti di Albenga si legge pure arumen nel senso di sterco di cane, un certo tipo di immondizia che oggi è spesso all'onor delle cronache per via delle ordinanze che obbligano i possessori dell'amico dell'uomo a munirsi di palette e sacchetti.
Da ricordare anche rümentéira, voce originaria del gergo marinaresco con la quale, a bordo delle navi, si indicava la cassetta mobile per raccogliervi la spazzatura, passata poi a significare la pattumiera domestica ed oggi pressoché scomparsa dal dialetto.
Altro derivato degno di nota, il rümentà, luogo ove tutti gettano irresponsabilmente i rifiuti e che oggi siamo abituati a chiamare discarica, quasi sempre abusiva.



Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Alzani Editore, Pinerolo (To), 1996, pag. 17


martedì 5 gennaio 2016

Quelle radici arabe del vecchio "armanacu"


Molto probabilmente, l'armanacu era l'unico ad entrare, una volta all'anno, nelle case dei nostri antenati. Nelle sue pagine, oltre al calendario vero e proprio, c'era un po' di tutto: fasi lunari e previsioni del tempo, proverbi e consigli pratici per la campagna, profezie più o meno indovinate sul futuro. Insomma, il "Frate Indovino" dei nostri giorni.

Circa l'origine della parola "almanacco", presente in tutte le lingue arabe dell'area mediterranea, non vi è dubbio che essa sia un regalo degli arabi, famosi astronomi e astrologi. Quanto alla Liguria, anche in questa occasione, essa mostra i suoi due risvolti dialettali: nella riviera di Ponente è d'obbligo armanacu, mentre a Genova e in tutto il Levante, fino a La Spezia, si usa lünàio, parente stretto del "lunario" toscano.

Ma l'estremo occidente ligure, da Taggia a Ventimiglia, fa registrare un'eccezione degna di nota. Forse perché, fra i vari annuari, quello ormai plurisecolare del Gran pescatore di Chiaravalle era il più diffuso, armanacu aveva dovuto cedere il passo a ciaravale, parola entrata di prepotenza nel linguaggio popolare.
"Mira che u ciaravale u marca patele!" era, ad esempio, una frase rivolta minacciosamente ai bambini irrequieti e che, fuor di metafora, significava "Stai attento che ora le buschi!".

Ma poi, sia ciaravale (come annota Pio Carli nel suo Dizionario dialettale sanremasco-italiano) che armanacu, spesso ampliato nella forma armanàculu, si usavano per indicare comunemente una persona piuttosto originale o un oggetto di poco conto, se non addirittura inutile, pressapoco equivalente all'italiano "ammennicolo".

Se comunque ci spingiamo ancor più verso occidente, in Provenza e in Catalogna, scopriamo che il dominio delle forme armana, armanac e almanac è diffuso ovunque e più consolidato che mai.

E poiché ci troviamo in Provenza, non possiamo passare sotto silenzio l'Armana prouvençau, la rivista letteraria annuale pubblicata dal Felibrige.
Anche a Monaco, il calendario è l'armanacu; fanno eccezione, e non sarà l'unica volta, soltanto i mentonaschi che lo chiamano calendrie.

Il Casamara era quello che "entrava" in casa nostra (e che chiamavamo u ciaravale) e il Bugiardino è il lunario genovese.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Alzani Editore, Pinerolo (To), 1996, pag.11


lunedì 21 dicembre 2015

"Deinà" o Natale di una volta


La parola "Natale", mediata dalla lingua italiana, ha quasi sostituito definitivamente Deinà, termine con il quale i nostri antenati indicavano la festa del 25 dicembre.
Sulla sua etimologia non vi sono dubbi, in quanto sia il dialetto ligure, sia il piemontese ed il lombardo l'hanno ricevuta dal latino Dies natalis, giorno della Natività. Sotto varie forme, tutte riconducibili a Deinà, i vocabolari dialettali della nostra regione riportano questo termine, ma più come una curiosità linguistica che come parola di uso corrente.
La sua decadenza deve risalire a molto tempo fa se, già nel 1876, il Casaccia, nel suo dizionario genovese, la riporta così: "Dënâ, Natale o Pasqua di natale. Voce del contado". E in questa ultima annotazione è insita una regola costante nella vita delle parole dialettali. Secondo la teoria del linguista Matteo Bartoli, esse sono più persistenti nelle aree laterali, che solitamente si identificano con le zone rurali, mentre tendono ad innovarsi al centro, dove maggiore è l'urbanizzazione cittadina. Ma, nella citazione di cui sopra, vi è una curiosità che non possiamo passare sotto silenzio, quella “Pasqua di natale” che ricorda tanto la Pascua de Navidad degli spagnoli.
Volgendo, come sempre lo sguardo a Occidente, vediamo che la festa è Natale a Mentone e a Monaco, Calena a Nizza e Nouvè o Calendo in Provenza. Fra i detti legati alla festività natalizia, ricordiamo «dürà da Deinà a San Steva» usato per indicare qualcosa di talmente effimero che la sua durata va dal giorno di Natale all'indomani, festa di Santo Stefano.
Oggi il nostro Natale è più che altro ridotto al rango di una qualsiasi operzione commerciale e anche se, sul fronte linguistico, l'antichissimo Deinà è caduto in disuso, non possiamo fare a meno di constatare che il suo suono arcaico ha il potere magico di evocare i tempi in cui il Natale era soprattutto una festa religiosa che si celebrava nel calore della famiglia.


Renzo Villa, Dialetto ieri e oggi, Cumpagnia d'i ventemigliusi, Alzani Editori, Pinerolo, 1996, pag. 85


martedì 13 ottobre 2015

Maiolino, monaco di luce


Colpo di dadi gettato fra le ombre della sera, in circostanze eterne, alla ricerca di ciò che fonda l’esperienza visiva, la pittura di Maiolino plana con raffinato rigore sul magma dell’esistenza.
Trasparenze, intrecci, composizioni. Una spietatezza, la mano del destino, il “rappel à l’ordre” di una ronda segreta, prova quest’uomo chino sugli effetti della luce e dell’ombra. Reazione calcolata alla solarità mediterranea, tentativo antico di racchiuderla dentro un corteo di essenze, di intuizioni eidetiche, come a spogliare la terra di ciò che non fa parte della sua frammentarietà astrale.
L’ordine stesso di questo mondo si alza nella sua luce, procede in una geometria scarna, dove le cose vibrano per assenza, in una nostalgia appena suggerita. Pittura di lavorio e di suggestioni intorno a una struttura viva e di cenere.
Un severo, metodico spirito suscita l’idea di un aldilà dell’armonia naturale, di cui la natura è solo un riflesso dalle forme imprecise. L’ombra secolare di un’icona di Bisanzio accompagna la ricerca di un’elementare verità pittorica.
Sono tanti i nomi che potrei fare di questi monaci della luce, una sorta di compagnia di templari e di giansenisti me ne astengo di proposito. Attorno a loro si addice un alone di silenzio.


Francesco Biamonti, Scritti e parlati, Einaudi Editore, Torino, 2008, pag. 210 - Pubblicato sul Bollettino della Comunità di Villaregia, 1994


giovedì 1 ottobre 2015

Il restauro è ultimato e l'arcano in parte svelato...

U Santétu de Cabanéte restaurato

Tutto cominciò a maggio del 2014, un'iniziativa partita dal basso, all'osteria: Oscar Rossi si fece portavoce e sostenitore della causa. Sembrava cosa da poco, bastavano dei volontari, del materiale e mettersi all'opera. Le cose, però, non si rivelarono così semplici, per cui l'Associazione culturale A Cria di Vallebona prese in carico il "problema" e affrontò le trafile necessarie per arrivare al dunque, come raccontai, a suo tempo qui.

Prima del restauro

Di edicole votive, in dialetto Santéti, a Vallebona, come in tutti gli altri paesi, ce ne sono parecchie. Alcune sono in buono stato, altre sono state mantenute e riparate da privati, una è stata demolita per far passare una strada (e non dico chi ne è responsabile), un'altra è crollata. Insomma: siamo in cammino per salvare il salvabile.

(Cliccando sulle foto è possibile ingrandirle)

Il Santétu de Cabanéte però, è il più particolare di tutti: ci siamo domandati da dove poteva provenire questa architettura, abbiamo chiesto alla gente del paese se ne conosceva la storia, abbiamo contattato, tramite i social net work, professori di ogni genere per cercare di definire questo manufatto.


La restauratrice Raffaella Devalle ha iniziato il suo accurato lavoro attenendosi rigorosamente alle regole previste e nei tempi stabiliti ha portato a compimento l'opera. Anche lei era molto incuriosita e un bel giorno mi dice che un signore, che passa spesso da quel punto, le raccomanda di "aggiustare bene u Santétu". 


Solo osservando bene, si possono notare certi particolari: in queste foto, ad esempio, si vede quanto è sconnessa la base che regge la lastra di ardesia su cui poggia il tutto, lastra che col tempo è pure "scivolata" perdendo la sua posizione centrale e simmetrica.


Raffaella procedeva con solerzia: Flavio Guglielmi ha provveduto il materiale per il basamento su cui appoggiare il suo piccolo ponteggio; l'architetto Tullio Gugole ha seguito giorno per giorno i lavori e anch'io facevo i miei sopralluoghi per vedere il work in progress. E quel signore, ogni volta che passava, aggiungeva qualche informazione...


Un giorno le ha portato due vecchi coppi, dicendo a Raffaella che, a suo tempo, erano posti sul retro del Santétu. Purtroppo, non avendo fotografie che possano testimoniare l'affermazione, per regola non si può aggiungere nulla all'esistente e le regole vanno rispettate. Capisco, dalla descrizione di Raffaella, che il "signore" in questione è Luciano Guglielmi e, benché a volte passano mesi senza che io lo veda, dopo mezz'ora il caso ha voluto che lo incontrassi.


Luciano de Vergì sa qualcosa del Santétu, è l'unico che sa dirci qualcosa. Un suo prozio, fratello di Lisà, sua nonna materna (Lisà era esattamente uguale alla nonna delle favole!), morto cinquantenne nel 1927, era un personaggio estroso, insomma, un artista. Costruì lui quel manufatto, nei primi decenni del Novecento. Si chiamava Avustì, al secolo Viale Agostino e faceva delle sculture in legno di noce che ancor oggi Luciano si chiede come abbia potuto realizzarle. Esiste poi un libretto che spiega il significato delle opere scultoree e la mia speranza è che, su quel libretto, ci possa essere anche qualche riga sul significato del Santétu. 


Luciano, classe 1940, ricorda di averci sempre visto la statua di Sant'Antonio da Padova ed infatti la proprietaria dell'abitazione adiacente, Viale Graziella, l'aveva tolta e conservata quando si era resa conto della fatiscenza del Santétu, nonostante i numerosi tentativi di intervento che alcuni, nel tempo, avrebbero voluto apportare, ma non fu loro permesso se non interpellando con i permessi le Belle Arti, cosa che per loro si rivelò complicata.

In effetti quella zona apparteneva (ed in parte appartiene ancora) alla famiglia Viale, ovvero i miei antenati. Che il manufatto non richiami esattamente elementi cristiani, non mi stupisce. Esistono documenti che attestano un processo per direttissima, inflitto loro dalla Chiesa, ad alcuni miei avi perché "sorpresi a consegnare dell'olio a San Biagio della Cima in giorno di festa"., sorpresi dunque "a lavorare". L'accusa fu di "eresia" e chissà che non ci sia qualche legame con quel manufatto un po' massonico e arabeggiante, insomma, una sorte di "protesta". Chissà. E chissà se Luciano troverà altre preziose informazioni...
Intanto son ben contenta che sia restaurato e che ospiti proprio Sant'Antonio da Padova: destino vuole che io sia nata proprio il giorno della sua festa!


domenica 25 dicembre 2011

Effetto-calendario "A Cria"

Luciana, Adriana e Sofia de Luré Bafòn
anni Sessanta

Quando il Calendario "A Cria" raggiunge le case dei Valebunenchi, alcuni dichiarano di guardarselo in santa pace, con gli occhiali giusti, sul tavolo sgombero per poterlo sfogliare senza ostacoli, altri preferiscono scorrerlo durante il pomeriggio del giorno di Natale insieme ai familiari.

Luciana, Adriana e Sofia de Luré Bafòn
anni Novanta

Ogni persona che ha dato all'associazione alcune foto nella busta riciclata dell'enel o di altri gestori (la maggior parte della posta oramai sono solo bollette da pagare!) si chiede quali e quante saranno quelle usate, dato che lasciano discrezione di scelta agli incaricati. 

 Adriana, Luciana e Sofia de Luré Bafòn
oggi, mentre guardano il calendario

Eh sì, ci voleva proprio una testimonianza così per rendere l'idea: l'amico Corrado Camillo fotografa la mamma e le zie mentre con rito di assoluta partecipazione, dopo il pranzo natalizio, si gustano il calendario 2012, in cui sono state pubblicate le loro due foto sopra esposte.

...mi sembra di sentire i loro commenti...


mercoledì 21 dicembre 2011

Frai e sò... e figli ùnici

Copertina del calendario A Cria 2012:
i gemellini Nicolò, Linda e Federico Ghiara

Ce l'abbiamo fatta anche quest'anno, il quattordicesimo consecutivo! 
L'Associazione culturale A Cria di Vallebona ha fatto un bel pieno di fotografie, grazie alla partecipazione delle persone del paese che hanno risposto con interesse al tema proposto: Frai e sò... e figli ùnici, ovvero Fratelli e sorelle e figli unici. 
La presidente Daniela Lanteri ed io ci siamo divertite e commosse parecchio nel vedere e nello scegliere le foto, soprattutto osservando le braccia che stringono il proprio fratello o la propria sorella. E ci siamo sbizzarrite ad affrontare, nell'introduzione, questo tema così pieno di spunti di riflessioni.
Scorrerà nel post una foto per ogni mese, col relativo titolo che abbiamo dato ad ogni pagina. Per ogni mese, in realtà, ci sono da sei a dodici foto: immaginate l'emozione per la gente del paese...

Zenà: Tanti frai...
Germano, Corrado e Sergio Camillo

Frevà: ...e tante sò
Elena, Valentina e Luciana de Custansì

Marsu: Dui frai...
Lucio e Andrea de Eraldo
foto pervenutami dal Messico...

Avrì: ...e due sò
Fiorella e Stefania Guglielmi

Magiu: Frai e sò (1)
Rina e Tullio de Rosa d'Ampé

 
Zùgnu: In catru o sinche
Tina, Emanuela, Roberta e Piero Guglielmi

Lùgliu: Frai e sò (2)
Sara e Gabriele Guglielmi

Avustu: In trei
Rosalba, Graziella e Dino de Pietrìn

Setembre: Sò cume mairi
Mariella e Pia Viale

Utubre: I gemelli
Tania, Desi e Monia Medda

Nuvembre: Frai e sò (3)
Emilio e Alba Vichi

Deixembre: Cùxin primi cume frai e sò
Giorgia e Nicolò Guglielmi

Ultima pagina: 
Ermanno e Enzo Taggiasco, 
i frai "storici" da valata

Abbiamo dedicato l'ultima pagina, che comprende i saluti e i ringraziamenti, ai fratelli Taggiasco di Sasso, perché secondo noi sono un esempio straordinario di convivenza tra fratelli. Nella loro vita hanno condiviso tutto: lavoro, divertimento, abitazione, gioie e dolori, nonostante abbiano entrambi famiglia. Esemplari.
La domenica prima di natale esce sempre il calendario: per i Valebunenchi è un appuntamento, un'attesa sentita.
E per noi de A Cria una soddisfazione!


lunedì 12 dicembre 2011

Evviva la burocrazia!


Un articolo datato 1919:

"Francamente l'idea di rivolgerci al Ministero così detto competente per sapere se vi erano materiali teleferici disponibili per gli agricoltori federati che li avevano richiesti, non fu felice. Dopo un mese e mezzo di attiva corrispondenza con innumerevoli uffici, comitati, sottocomitati, commissioni, sottocommissioni esistenti in tutte le province d'Italia, ebbi il conforto di sapere - rivolgendomi però al Comitato Supremo - che i materiali teleferici si cedevano soltanto agli stabilimenti del genere!
Vorrei elencare tutti gli uffici che presieduti da maggiori, da tenenti colonnelli, da colonnelli, si occuparono della pratica, limitandosi soltanto ad indicare altri uffici competenti; ma forse non basterebbe l'intero giornale; tanto più che da nuovi uffici si continua a scrivermi! Segno evidente che la pratica viaggia ancora! Ed è in viaggio dal primo di Maggio!!
Una delle ultime lettere ricevute porta nientemeno che la firma del generale Pirro, presidente del Comitato Interministeriale delle Industrie di Guerra, in Este. L'ottimo generale, riferendosi - bontà sua - ad una mia lettera del 14 maggio pervenutagli chissà da quale altro ufficio, mi avverte in luglio che la pratica è stata trasmessa al competente Consorzio nazionale per la realizzazione delle teleferiche, testé costituito in Roma presso il Comitato Interministeriale per la sistemazione delle Industrie di Guerra.
Evidentemente l'ufficio, cui l'Eccellentissimo maggior generale Pirro presiede, ignora quanto riguarda al materiale teleferico dispose la superiore autorità e probabilmente lo ignorano gli altri uffici; ma è doloroso constatare tale allegro ed incredibile acrobatismo della burocrazia militare.
Quanto si deve lamentare per i materiali teleferici va ripetuto per tutte le altre pratiche delle quali si interessa la Federazione.
Gli uffici militari intanto continuano ad esistere ed una coorte di ufficiali superiori vi sonnecchia dentro pappando lauti stipendi, decisa a non andarsene a nessun costo, mentre le folle esasperate si sfogano con le patate e le cipolle!"

Raffelin

...come per dire che la casta non è una novità.

Da Terra Ligure, periodico mensile della Federazione agraria della Liguria Occidentale, Anno I, n. 2, 30 luglio 1919


domenica 11 dicembre 2011

Intemelion n. 17

Copertina del n. 17 di Intemelion

Nello splendido Oratorio dei Neri di Ventimiglia Alta, ieri pomeriggio c'è stata la presentazione dell'ultima edizione di Intemelion, il Quaderno che raccoglie studi, saggi e ricerche storiche del comprensorio intemelio.
Intemelion è una cosa bella. Con questa edizione, come ricordava il prof. Giuseppe Palmero nella sua introduzione, i numeri della rivista totalizzano quasi 3.000 pagine di storia locale, della cui qualità non v'è dubbio alcuno, dato che Intemelion trova poi dimora in importanti università e biblioteche nazionali e internazionali.

I professori Fulvio Cervini e Giuseppe Palmero

Figura immancabile alle presentazioni di Intemelion è il prof. Fulvio Cervini, docente di Storia dell'arte medioevale all'Università di Firenze. E' un piacere ascoltarlo: non si perde una virgola di quel che dice, essendo la sua esposizione così "tonda" da non poter uscire dal cerchio... Suo compito è dunque quello di esporre i contenuti dei vari autori, affatto collegati tra di loro per argomenti, ma che il professore unisce con molta naturalezza.

L'Oratorio dei Neri

La presentazione è avvenuta nell'Oratorio dei Neri di Ventimiglia Alta, luogo di cui non ne conoscevo l'esistenza, ed averlo visto per la prima volta appena completato il restauro è stata una piacevolissima scoperta. Il merito di questo intervento è di Don Luca, giovane parroco che prima di approdare in cattedrale a Ventimiglia svolgeva il suo servizio a Borghetto San Nicolò, il paese che precede il mio; già conoscevo Don Luca e le sue qualità , ma questo risultato ha ulteriormente avvalorato la mia stima nei suoi confronti.

Adriano Meggetto al flauto tedesco

A sorpresa, il maestro Adriano Meggetto ha suonato un pezzo al flauto tedesco, completando il quadro di una manifestazione che, nel suo insieme, non si è fatta mancare nulla in quanto a prestigio.


Un affresco della volta dell'Oratorio dei Neri

Non era certo ieri l'occasione giusta per osservare ed approfondire le opere presenti nell'Oratorio che, tra l'altro, erano davvero parecchie. Più scuri gli affreschi alle pareti laterali, decisamente più luminosi quelli della volta: vale la pena mettere in programma una visita all'Oratorio in tutta calma per scoprire questi piccoli tesori locali.

Porta dell'Oratorio dei Neri: lato interno

C'era un pubblico assai numeroso alla presentazione, che ha molto rinfrancato le due anime di Intemelion, ovvero Fausto Amalberti e il Prof. Giuseppe Palmero. Tuttavia a me sono mancati molti visi che d'abitudine incontro a questa presentazione. A parte Paolo Veziano, che sapevo essere a Canale d'Alba, dov'eravate Alberto Cane, Marco Cassini, Filo, Skip, Gian Paolo Lanteri?

Porta dell'Oratorio dei Neri: lato esterno

E' opportuno che visitiate il sito di Intemelion per saperne decisamente di più. Là troverete tutti gli autori e gli argomenti di questo numero e di quelli precedenti e potrete farvi un'idea esatta della portata e del prestigio di questo lavoro. E se incontrerete sulla vostra strada qualche iniziativa volta al sostegno e alla sopravvivenza di questo disinteressato compendio di studi e ricerche, ebbene: sostenetelo, perché anche Intemelion ha una non facile situazione economica.