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lunedì 16 luglio 2018

U Giacuré 2018


A 31 anni di distanza dalla I° edizione, il Premio di poesia dialettale intemelio U Giacuré continua il suo cammino durante il quale è doveroso ricordare la sua istitutrice, prof.ssa Marisa Amalberti De Vincenti. Un premio in memoria del marito prematuramente scomparso e cultore del dialetto. Un concorso di poesia che continua a coinvolgere un territorio compreso tra Nizza e la Valle Argentina, insomma l’estremo ponente, il far west.

Per questa edizione sono stati inviati 26 componimenti da sottoporre al vaglio della giuria, della quale mi preme ricordare i nomi: Daniela Lanteri, presidente, Ferruccio Poggi, Gianni Modena, Gianni Rebaudo e Marilisa Sismondini. Nell’insieme il livello delle opere si è rivelato buono e, pur non essendo U Giacuré un concorso a tema, si è notato che l’argomento maggiormente trattato è stato quello riferito alla Natura.

Mi è venuto spontaneo chiedermi “perché” e ho provato a dare una risposta.
Si ritorna alla Natura e al suo ricchissimo mondo quando c’è una caduta di valori altri: essa diventa un concetto di rifugio, quel qualcosa che stando al di là del tempo e dell’uomo, continua imperterrita il suo miracolo, pur subendo aggressioni e devastazioni di proporzioni esagerate da parte dell’uomo stesso.

L’osservazione di molti di voi si è soffermata su micro-aspetti, quasi in contrasto con i fenomeni di globale grandezza cui è giunta la comunità umana. L’infinitamente piccolo e talvolta il sommerso, assumono quindi un magico aspetto pieno di leggi sue proprie, immutabili, rinnovabili, perenni. Un mondo da osservare nel momento in cui l’uomo non sa più dare il meglio di sé, nonostante la sua preziosa intelligenza e magnifica emotività.

La Natura, matrigna per leopardiana memoria, cattura l’osservazione, stupisce per la sua energia vitale, incanta per la sua bellezza e diventa panacea di fronte ad un quotidiano sempre più privo di valore, di spessore e di profondità.

I sentimenti cedono il passo allo stupore quasi infantile che si cela nella Natura. I sentimenti faticano a ritrovare una loro sede espressiva forse perché il momento storico è troppo compulsivo, veloce e dà più voce all’agire che al pensare e soprattutto al sentire; le emozioni si nascondono dietro una realtà virtuale che non è comparabile alla realtà vera e propria: nessuna mediazione è possibile laddove manca la presenza fisica dell’altro da sé.

Tutto contribuisce ad impoverire l’anima, la vera sede della contemplazione e quindi della poesia.



venerdì 9 febbraio 2018

La storia appallottolata


Caro blog,

scusa se ti ho trascurato, o meglio, quasi abbandonato per tanto tempo. Mi sono dedicata a tuo fratello, u paìse, per dare spazio alla poesia dialettale ligure e ho perso un sacco di tempo sui social, dove tutto scorre e si consuma come un rotolo di carta igienica. 

Qui da te, invece, scrivevo le mie riflessioni, i miei pensieri; qui ho postato un po' di tutto ed eri anche abbastanza seguito e apprezzato da altre persone. Ciò nonostante, ti ho pressoché abbandonato lo stesso. Sai, di là, su Facebook, è tutto più facile: scorri, ridi, commenti, metti mi piace, leggi, scrivi cose serie o belinate, pubblichi foto, bisticci, cancelli qualcuno che non sopporti più... insomma, pur dovendo sempre "trafficare", è tutto più leggero.

Ma rieccomi a te. Un pensiero di dispiacere me lo hanno anche espresso coloro che ti leggevano sempre e non sono sui social: a loro un pochino sei mancato davvero. Ora va detto: da dove si riparte? Ebbene, qualcosa da dire ce l'ho, altrimenti non sarei tornata! Riparto dalla storia appallottolata, a quelle pagine che, con non-challance, gente di tutti i tipi e di tutte le età, accartoccia e butta via come se niente fosse. 

Buttano via la Resistenza, parlano di nuovo di fascismo come se niente fosse stato. Buttano via la Shoah, la deridono, la disprezzano, pure certi sindaci, mica dei beoni da osteria ubriachi, no, no, anche dei sindaci. Poi appallottolano le lotte operaie, la conquista dello Stato sociale, le battaglie femministe, le emancipazioni a tutti i livelli dicendo che è tutta roba vecchia, anacronistica, da comunisti. E buttano via anche quella pagina lì. Ma non è mica finita, sai, accartocciano anche la cultura, quello strumento così importante per aprire un pochino la mente ed avere l'opportunità per tentare di comprendere i fenomeni. Meglio consumare, godere, inseguire i beni materiali, fagocitare il proprio ego, sbraitare perché arrivano i migranti, perché ci ruberanno tutto, ci sgozzeranno, ci faranno a pezzi e ci metteranno nei trolley. Meglio difendersi da queste brutture, invocando un capo popolo come Benito, che sappia comandare, ducere, ripulire da quella feccia NON italiana che ci ha invasi,

Ecco, ce la stiamo passando male. Siamo caduti proprio in basso, sai, e quelli che hanno ancora un filo di ideologia, quelli che cercano di vedere la storia per quello che è il suo corso, quelli che non la appallottolano, ma cercano di ricordarla, di trarne insegnamenti e soprattutto di provare a comportarsi dignitosamente, ebbene, lo sai come sono stati definiti? Buonisti. Ci sarebbe da ridere, ma è tutto talmente grave e triste che con ce lo possiamo permettere. Sbraitano, invocano il fascismo, sparano, hanno bisogno di sbranare l'altro ed anche me che non la penso come loro.

Allora ho pensato che forse era bene ritornare a raccontarti un pochino come butta, a fare il punto della situazione, perché tu "non scorri" come di là, tu rimani. Tu non dimentichi e per una volta appallottolo anch'io qualcosa, ovvero questo presente fatto spesso e volentieri di niente o, peggio ancora, di ignoranza. La storia però la tengo a mente, quella non la dimentico di certo: è lei che mi dà forza per sopportare questo difficile ed incerto momento.



sabato 27 gennaio 2018

Giorno della Memoria


AGAVE 

Non sono utile né bella,
non ho colori lieti né profumi;
le mie radici rodono il cemento,
e le mie foglie, marginate di spine,
mi fanno guardia, acute come spade.
Sono muta. Parlo solo il mio linguaggio di pianta,
difficile a capire per te uomo.
È un linguaggio desueto,
esotico, poiché vengo di lontano,
da un paese crudele
pieno di vento, veleni e vulcani.
Ho aspettato molti anni prima di esprimere
questo mio fiore altissimo e disperato,
brutto, legnoso, rigido, ma teso al cielo.
E’ il nostro modo di gridare che
morrò domani. Mi hai capito adesso?


Primo Levi, 10 settembre 1983


Grazie, Gian Paolo Lanteri, per questa segnalazione


giovedì 8 giugno 2017

Lo spirito libero


Un concetto relativo, lo spirito liberoSi chiama spirito libero colui che pensa diversamente da come, in base alla sua origine, al suo ambiente, al suo stato e ufficio o in base alle opinioni dominanti del tempo, ci si aspetterebbe che egli pensasse. Egli è l'eccezione, gli spiriti vincolati sono la regola; questi ultimi gli rimproverano che i suoi liberi principi trovino origine nella sua smania di farsi notare, oppure addirittura che facciano pensare ad azioni libere, cioè ad azioni che sono incompatibili con la morale vincolata. Talvolta si dice anche che questi o quei liberi principi sono da attribuire a stramberia o a esaltazione della mente; ma così parla solo una malignità, che - essa stessa - non crede a ciò che dice, ma vorrebbe, in tal modo, nuocere: infatti, la testimonianza della maggiore bontà e acutezza del suo intelletto è di solito scritta in volto allo spirito libero, e a così chiare lettere, che gli spiriti vincolati la intendono benissimo. Ma gli altri due modi di spiegare l’origine del libero pensiero sono intesi onestamente; in effetti molti spiriti liberi si formano anche nell’uno o nell’altro modo. Tuttavia le conclusioni, a cui essi per quelle vie sono giunti, potrebbero essere, proprio per questo, più vere e attendibili di quelle degli spiriti vincolati. Nella conoscenza della verità ciò che importa è che la si possieda, non per quale impulso la si sia cercata o per quale via la si sia trovata. E se gli spiriti liberi hanno ragione, allora gli spiriti vincolati hanno torto, non importa se i primi sono giunti alla verità per immoralità e se i secondi si sono attenuti finora alla non verità per moralità. D’altra parte non appartiene all’essenza dello spirito libero che egli abbia opinioni più giuste, ma piuttosto che egli si sia staccato dalla tradizione, sia con fortuna sia con insuccesso. Di solito, comunque, egli avrà dalla sua parte la verità o almeno lo spirito di ricerca della verità: egli esige ragioni, gli altri fede.


Friedrich Nietzsche Umano, troppo umano, I, tr. it. di Sossio Giametta, Adelphi, Milano 2002



venerdì 5 maggio 2017

Ho ricevuto questa lettera

Cliccare per ingrandire

Pochi giorni fa ho ricevuto questa lettera, contenente uno scritto ed un biglietto da 5 euro appuntato con un pezzetto di scotch. Nella foto sottostante, ho alzato la banconota affinché si possa leggere il testo, che provvedo a tradurre per chi non conosce il francese. La firma, ovviamente, l'ho resa illeggibile.

Cliccare per ingrandire

"Cara Signora, 
Lei sarà senza dubbio stupita di ricevere questa lettera. Ho avuto il piacere di incontrarla una settimana fa (il giorno di Paquetta) alla Festa dell'Arancio amaro. Ho acquistato da lei dei limoni e si è sbagliata nel rendermi il resto ed io non me sono accorta sufficientemente in tempo per restituirglielo subito. E' per questo che le scrivo oggi: le rendo anche un po' di più, ma non fa nulla, Ho così il cuore più in pace...
Le auguro tante belle cose sul suo cammino. Che Dio la benedica  e la protegga, lei e tutte le persone che la amano.
Con i miei migliori pensieri. T. A.".

Ritrovarsi tra le mani questo scritto, con i tempi che corrono, è davvero qualcosa di insolito.
Grazie ai social sono riuscita a risalire alla persona in questione: non è affatto anziana, è un'artista che lavora vetro e piombo (quelle vetrate fantastiche!) ed abita da tutt'altra parte della Francia.
Io non mi ero accorta di essermi sbagliata, ovviamente, ma lei sì e la sua onestà l'ha indotta a compiere questo gesto.

Onestà, benevolenza, pulizia, umanità: meno male che qualcuno sa ancora essere tale.

martedì 10 gennaio 2017

Il tutto che diventa il nulla


A volte il passato ci spaventa, anche se non riusciamo, per istinto, ad andare indietro oltre al secolo. Abbiamo conosciuto bene chi è nato circa cento anni fa: erano i nostri padri, i nostri nonni, i veci che, alla luce della nostra infanzia, ci rappresentavano il volgere al tramonto della vita.
Poi ci siamo dimenticati di loro.
Ed ora, quando un attimo di riflessione ce li fa ricordare, sentiamo dentro di noi un disagio: tutto è cambiato, loro non appartengono a questo presente, sarebbero una nota stonata.
E pensare che il mondo non ha cento anni soltanto, ma secoli e secoli, e noi ne siamo la continuità, benché questo pensiero ci dia fastidio. Siamo "obbligati" ad un presente compresso, stancante, stressante, per certi versi, "disumano". Un presente che non lascia posto al passato e nemmeno al futuro perché, tutto sommato, stiamo andando verso il domani senza sapere bene perché e per che cosa. Andiamo e basta.
Strati di cemento, di asfalto, di plastica, di vetro, di ferro, di alluminio e quant'altro hanno sepolto ogni traccia di chi ci ha preceduto. Il mondo continua a seppellire altri mondi, spesso migliori di quelli attuali, cancellando con fulminea velocità anche sentimenti ed emozioni oltre alle cose.
Il tutto che diventa il nulla.


mercoledì 19 ottobre 2016

L'ego G.I.O.C.A.


La psicologia buddista è maestra, come tante altre discipline, nello sviscerare i significati intrinsechi delle emozioni.
Essendo suo fondamento l'annullamento dell'ego quale soluzione ai problemi dell'umanità ed il proporre l'altruismo come antidoto, ecco che riesce ad individuare 5 dannosi demoni che minano in continuazione il raggiungimento della serenità e del sano vivere.
In italiano si può addirittura creare un acrostico, come si può vedere nel titolo del post, che sintetizza le iniziali di questi demoni e non mancano di certo i rimedi (paramitas) da mettere in atto.

Andiamo per ordine:
G = GELOSIA: è un'emozione devastante che nasce dalla difesa del proprio ego a fronte di qualcosa che ci si vede sottratto o che non ci può appartenere. La gelosia è un grande male che spesso scatena omicidi o atti e pensieri estremamente negativi, di cui l'essere umano è spesso preda. Il rimedio consite nell'acquisire la capacità di saper gioire del benessere altrui, sia a livello di sentimenti, sia di risultati lavorativi, sia di altri successi e quant'altro.
I = IGNORANZA: emozione perturbatrice da cui discendono tutte le altre, ne siamo vittime sia per quello che "ignoriamo", ossia non sappiamo, sia per un accecamento egoico che fa presumere che se ne sappia più degli altri. Pericolosa, dilagante e anche solida corazza dietro cui ci trinceriamo, richiede di sviluppare la saggezza, soprattutto attraverso la meditazione, al fine di comprendere il senso di tutte le cose.
O = ORGOGLIO: ovvero "essere al centro di tutte le cose", è un'emozione di cui si "gonfia" l'ego a scapito degli esseri, pavoneggiando la propria personalità, o nazione, o appartenenza con senso di superiorità. Richiede un antidoto ben preciso, ovvero l'equanimità, cioè riconoscere a tutti le proprie capacità e la possibilità di progredire nel loro percorso. Il suo esatto contrapposto si può coniare quindi nell'umiltà.
C = COLLERA: emozione complessa, composta anch'essa dall'insieme delle altre. Esprime un'energia forte e pericolosa, si potrebbe dire bestiale, capace di infierire e ferire senza controllo alcuno. Il rimedio da sviluppare per controllare questa pericolosa energia negativa è ovviamente la pazienza e la benevolenza, che ci introducono alla calma e al controllo dei pensieri ed anche l'amore, come contrapposizione all'odio di cui la collera si nutre.
A = ATTACCAMENTO/DESIDERIO: questa emozione è il frutto del volere e del possesso, che ci rende prigionieri di noi stessi e ci crea, al di là degli aspetti piacevoli, una grande sofferenza, soprattutto l'insoddisfazione. L'antidoto a questo demone è la generosità e la meditazione sull'impermanenza del tutto.

Un piccolo ma denso schema che alla lettura ci dà il senso dell'ovvio, ma riuscire a metterne in pratica i contenuti non si rivela, poi, così semplice.
Sviluppare saggezza e compassione, pilastri su cui si fonda la serenità e il lieto vivere, è una via ardua. E al di là di quello che solitamente passa per la nostra mente (e che spesso è frutto della coscienza discorsiva dettata dal nostro ego), il pericolo vero e proprio è il comportamento che assumiamo nel relazionarci con gli altri. Quanta strada, (e veramente ardua!) abbiamo da percorrere dentro noi stessi!


lunedì 18 luglio 2016

Se sapessi a quale razza...


Se sapessi a quale razza appartengo, sarei una persona libera da tanti dubbi.
Se non avessi la pelle olivastra, se il soprannome della mia famiglia (Mouriai) non avesse quel riferimento così diretto ai Mori, se il mio gruppo sanguigno non fosse B, tipico degli arabi, se i miei sentimenti di compassione per l'olocausto non mi toccassero così nel profondo, se il mio essere italiana, europea, occidentale non fossero un dato di fatto, se la mia simpatia per il Buddismo non fosse l'unica via per accettare una religione, se le mie idee politiche non fossero così radicate nel motto "Liberté-Egalité-Fraternité", se il mio "senso dell'altro" non fosse un elemento di continuo stupore di fronte al dilagante egoismo, se tutti questi "se" non affollassero la mia mente, allora non avrei esitazioni a condannare, a disprezzare, a discriminare.
Invece sono tutto questo e altro ancora. Sono un essere umano, senza certezze, senza fede patentata, ma non senza la speranza in un mondo migliore. Chiamiamolo "bene", oppure "amore", ingoiamo tutte le brutture e le atrocità, ma resistiamo fermi nei principi e qualcosa cambierà.
E se la Storia è quella che stiamo vivendo, ricordiamoci che non c'è nulla di nuovo sotto il sole.



lunedì 26 ottobre 2015

Aforisma di Alda Merini


Beato chi ne è capace già in giovane età, in ogni caso diventa una necessità in età matura:

Mi 
piace 
chi sceglie
con cura, 
le parole da non dire.


Alda Merini (1931 - 2009)

Preso da Facebook e trascritto qui affinché rimanga. Là tutto scorre e se ne va, qui si possono ritrovare le cose, almeno quelle più importanti.


mercoledì 5 agosto 2015

L'inganno del lavoro

La fonte originale di questa analisi è qui  
Per non perdere di vista questo bell'articolo, lo posto anche sul mio blog, sperando lo leggano più persone possibile. Sembra lungo, ma cattura l'attenzione e si legge tutto d'un fiato. Cambiare prospettiva nel vedere la realtà è di somma importanza.



La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile... 

Francesco Gesualdi - Il Fondo Monetario Internazionale ha sentenziato che l'Italia avrà bisogno di 20 anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci sta prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non ne creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua missione come piace dire a chi vive l'economia come una religione.

La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai suoi azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco importa se dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in carne e ossa, con una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare. Per il mondo degli affari il lavoro è solo una merce, è del tempo da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c'è più offerta che domanda , per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti lavoro di quanto siano i posti disponibili.

Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c'è prima stata l'estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro. Un progetto definito da Papa Francesco come l"economia dello scarto", e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.

Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l'esclusione fa parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui, poverino, vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha bisogno di crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e le aziende assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che si creano nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le macchine alle persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad assistere alla guerra fra lavoratori da un capo all'altro del pianeta, si assiste anche alla guerra dei robot contro gli umani. Lo stanno sperimentando anche cinesi da che hanno osato alzare la testa per chiedere migliori condizioni di lavoro.

Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali, politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la crescita come l'unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo. Presi da quell'impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro alla leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà in nome dell'ambiente, pro crescita in nome del lavoro.

Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la sobrietà è l'unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia è che sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione dilagante. Al contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione. L'importante è convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella storia dell'umanità, l'obiettivo non è mai stato il lavoro. L'obiettivo è stato vivere bene nel senso di avere di che mangiare, vestirsi, viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo noi, figli del mercato, abbiamo trasformato il lavoro in idolo e non perché siamo impazziti, ma perché viviamo in un sistema che ci offre l'acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita. L'unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze.

La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile. La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in modo da interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre parole l'alternativa è l'autoproduzione in ambito individuale, per i piccoli bisogni personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni e servizi fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.

Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al lavoro non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro smetterà di essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel momento non ci sarà più interesse ad escludere, ma a ottenere la collaborazione di tutti. E se dovesse risultare che siamo troppi, potremo sempre dare una bella sforbiciata all'orario di lavoro con somma soddisfazione di tutti perché con meno lavoro potremo avere lo stesso livello di sicurezze.

Capito che l'inclusione passa attraverso il ridimensionamento del mercato e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa da fare è arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico. Basta con la politica delle privatizzazioni. Basta con il taglio alle spese sociali. Basta con una politica di bilancio che dà priorità al servizio del debito. Sì, invece, a una seria lotta all'evasione e ai paradisi fiscali. Sì a una tassazione progressiva dei redditi e in particolare delle rendite finanziarie. Sì a una ristrutturazione del debito. Sì a una sovranità monetaria al servizio dell'occupazione in ambito pubblico. C'è bisogno di politica nuova, ma potremo trovarla solo se saremo capaci di gettare il pensiero oltre il muro del sistema imperante.


, già allievo di don Milani, è fondatore e coordinatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano (Pisa), che si propone di ricercare nuove formule economiche capaci di garantire a tutti la soddisfazione dei bisogni fondamentali. Coordinatore di numerose campagne di pressione, è tra i fondatori insieme ad Alex Zanotelli di Rete Lilliput. www.cnms.it


venerdì 24 luglio 2015

SOBRIETA' NON POVERTA'

José Mujica


Rubato dai social, pubblico questo pensiero di Mujica non negando di essermi commossa mentre lo leggevo.

"La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere."
José Mujica 


lunedì 22 giugno 2015

Il volersi bene



"Il volersi bene si costruisce. 
L'amore lo senti immediato, non ha tempo. È dire "ti sento" un contatto di pelle, un abbraccio, un bacio. 
Mantenersi, è il mio verbo preferito, tenersi per mano. 
Ti può bastare per la vita intera, un attimo, un incontro. Rinunciarvi è folle sempre e comunque". 


Erri De Luca

mercoledì 29 aprile 2015

Del viandante

Viandante sul mare di nebbia - Caspar David Friedrich

Il viaggio classico-medievale segue una sorta di ordine, di articolazione, di ciclo, uno sviluppo che parte da un principio, si svolge secondo linee divergenti e trova una conclusione finale nel ritorno in patria, ossia la meta finale del viaggio.
Par contre, il Romanticismo riscopre la figure del viandante classica e medievale e la re-interpreta, la ri-definisce, la ri-elabora, la ri-vive. Ora il viandante vaga in cerca della sua patria che non è di questa terra e non è nemmeno una patria celeste. Il viandante vaga solo con se stesso in cerca di nessun luogo. Un altrove che non si trova, che è agognato ma che non esiste. Nessuna meta. L'errare diventa incessante e senza sosta. La patria, da luogo fisico, come Itaca, da luogo sovra-sensibile, come il regno dei cieli, diventa ora il cuore dell'uomo, diventa il luogo dove stare. Domina, nel Romanticismo, un elemento nuovo, che definisce il viandante e lo contraddistingue e lo suggella: il cuore. Ora il viaggio diventa sentimentale.
Il viandante romantico erra per necessità e per bisogno di viaggiare, un bisogno costitutivo della sua essenza. Il viandante da figura, modello, diventa cifra romantica, un modo di essere. Metafore e vita vissuta diventano inscidibili e inseparabili. Il centro propulsivo del vagare è il sentimento che essendo infinito fa sì che l'errare sia incessante: la meta viene raggiunta a tratti, ma sono solo brevi soste, piccole oasi di pace verso una meta finale che non c'è. Insondabile il sentimento, vagare infinito.
Chi sia giunto anche solo realtivamente alla libertà della ragione, sulla terra non può sentirsi altro che un viandante, verso un'ultima metà che non c'è. (F. Nietzsche)


Il viandante e la libertà, Cristiano Basso, Philobiblon Edizioni, Ventimiglia, 2004, pagg. 23 e seguenti



mercoledì 8 aprile 2015

Scrivere i post


Dal dicembre 2009 ad oggi il mio blog ne ha viste di tutte un po'. Avere una pagina web a disposizione per scrivere qualsiasi cosa passi per la mente è un'opportunità non indifferente. Molti blog sono stati col tempo abbandonati, altri continuano assiduamente a proporre qualcosa, altri ancora, come il mio, hanno diradato la pubblicazione dei post, ma sopravvivono.
Sono affezionata a Goodvalley, la mia prima finestra web. E di cose da dire ne avrei ancora tante, perché il viaggio della vita è un continuo pensare, ma forse i social network hanno avuto la meglio: dall'"angolo solitario" come poteva essere il blog, siamo passati alla "piazza", il luogo dove ci si può incontrare con chiunque e dialogare, liberi ognuno di dire la propria.
Ieri, in "piazza", ovvero su Facebook, passa questa frase di Simone Weil: La vita moderna è in balia della dismisura. La dismisura invade tutto, azione e pensiero, vita pubblica e privata.
Quella frase mi ha come liberato da una sorta di oppressione: quello che forse non ho più detto su questa pagina e che pensavo fosse a causa della pseudo-distrazione dei social network, in realtà è frutto di questa dismisura che tutto pervade. I pensieri, le cose assumono proporzioni tali da non riuscire più ad organizzarli in modo sistematico, a farli diventare riflessioni. E tutto sfuma, tutto svanisce.
Rimane, almeno per me, la poesia. E la fotografia. Rimangono questi due strumenti che, pur proponendosi in sintesi, lasciano spazio all'analisi, purché racchiudano ciò che considero imprescindibile: la bellezza.

mercoledì 11 febbraio 2015

Io credo nell'inferno, quello vissuto in terra

Se un amico manda una mail, a te e a qualcun altro a cui teneva far leggere un certo articolo, ebbene, oltre alla gratitudine per il pensiero e alla lettura tempestiva del contenuto, può anche sorgere spontanea l'idea di farne un post, da condividere con chiunque abbia voglia di leggerlo.
Grazie Marco.


Vi faccio partecipi di questo articolo che mi è piaciuto molto. 
Saluti, marlor58

Cosa può dire del Paradiso un onesto pagano quale mi considero? Io non credo nel Paradiso. Credo nell'Inferno. In terra. L'uomo è l'unico essere del Creato ad essere lucidamente consapevole della propria fine. Tutto ciò che hai vissuto, amato, conosciuto, visto, ascoltato, letto svanisce di colpo nel nulla, lo spaventoso Nulla. Penso che se ci fosse davvero Qualcuno che ha creato questa favoletta tragica sarebbe un sadico. E Baudelaire dice: «L'unica scusante di Dio è di non esistere». Credo che tutte le religioni siano nate dall'esigenza di rimuovere questa consapevolezza intollerabile della fine. Non c'è popolo e cultura nella Storia che non abbia un Dio, una religione, un culto o comunque un'idea del metafisico. Persino il buddismo trova il suo paradiso nel Nirvana, cioè nel totale annullamento dell'individuo e della sua coscienza. Ma anche un pensiero così apparentemente pessimista contiene in sé l'idea di un dopo, raggiunto attraverso la peregrinazione in vari stadi dell'umano. Anche i Romani che, a livello di elites colte, erano assolutamente pagani, avevano un'idea dell'immortalità che era data dalla Gloria che a differenza del successo, che riguarda il presente ed è, insieme al Dio quattrino, uno degli idoli dell'età contemporanea, si proietta nel futuro. E certamente Dante o Beethoven vivono, a distanza di secoli, in noi che stiamo vivendo. Ma loro sono morti, irrimediabilmente, radicalmente morti e non possono sapere, dai sarcofaghi in cui sono custodite le loro ossa, che vivono ancora nella mente degli altri.
Per la verità, secondo il rumeno Mircea Eliade, il più grande studioso delle religioni, c'è un popolo che non ha né Iddii né culti: sono gli indigeni delle Isole Andemane, le cui origini sono antichissime. In tempi remotissimi avevano anche loro un dio, che si chiamava Peluga, ma essendosi accorti che se ne strafotteva bellamente di loro, lo hanno rimosso e completamente dimenticato. Ciò non gli ha impedito di vivere felici e contenti. Ma qui risaliamo all'infanzia dell'umanità. E non è un caso che tutti gli autori laici che mi hanno preceduto, a cominciare da Dario Fo, con quel suo splendido e poetico racconto (anch'io, pur avendo una ventina d'anni meno di lui, ho un magico ricordo di noi ragazzini che all'alba, quando rientravano i pescatori, reggevamo le loro reti, non sul lago, come Dario, ma sulle rive di qualche paesino della Liguria) quando pensano a un paradiso in terra si rifanno alla loro infanzia, in quel mondo sognante e fatato dove distanze, cose, uomini, tempo si dilatano a dimensioni oniriche e vaghe e tutto è immerso in un'atmosfera magica. Perché non abbiamo ancora una cognizione precisa del mondo, dei suoi confini, delle sue dimensioni, dei luoghi, delle cose, dei fatti, della loro successione, del rapporto fra spazio e tempo. E tutto ci appare incerto e incantato. Alle nostre spalle non ha fatto ancora la sua comparsa quel tremendo occhio - la consapevolezza - che ci guarda vivere. Viviamo e basta. Ed è forse proprio perché, nel mio caso, quell'occhio ha preso ad osservarmi fin dall'inizio, togliendomi l'innocenza, che volevo, disperatamente volevo, rimanere nell'inconsapevolezza dell'infanzia pur avendola in realtà già perduta. Perché una cosa è veramente magica solo quando non si sa che lo è. Eppure nonostante questa contraddizione e tensione estreme ho avuto un'infanzia e un'adolescenza felici (il mio personalissimo paradiso) anche se insidiate e rese inquiete dalla coscienza che sarebbero finite. Credo che in tutti i bambini ci sia, sia pur per qualche attimo subito dimenticato fra i giochi, ma ricorrente, questa inquietudine. Così almeno canta Marisa Sannia: «C'è una casa bianca che, che mai più io scorderò/mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù/Era tanto tempo fa/ero bimba e di dolore io piangevo nel mio cuore/non volevo entrare in là/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremare/e non sanno che cos'è/Quella casa bianca che non vorrebbero lasciare è la loro gioventù che mai più ritornerà/Tutti i bimbi come me hanno qualche cosa che di terror li fa tremar e non sanno che cos'è/E' la bianca casa che mai più io scorderò/Mi rimane dentro il cuore con la mia gioventù che mai più ritornerà/ritornerà».

Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 9 febbraio, 2015


lunedì 1 dicembre 2014

Cerea Remo e cerea au furnu

Remo Guglielmi
"Pausa" di Maria Grazia Rebaudo

Quando nel 2006 Remo, il panettiere, ci ha lasciati, gli dedicai lo scritto che segue. L'ho "ripescato" perché oggi ho saputo che anche il luogo in cui faceva il pane, u furnu, proprietà del Comune, è stato venduto. Per me è un'altra morte, non per chissà quale nostalgica o poetica fisima, ma perché quel locale rappresentava un'opportunità per vitalizzare il paese. Si poteva riadattarlo a luogo per cucinare, ma soprattutto per insegnare a cucinare ai turisti, si poteva, attraverso quel piccolo spazio, seminare qualcosa destinato a crescere nel tempo, con una Expo 2015 che punta sul cibo, con un momento storico in cui "non ci resta che mangiare". Non mi dilungo sulle potenzialità, mi dispiace e basta.
E chi ha deciso di venderlo, sono certa non è stato minimamente sfiorato dall'uso che se ne poteva fare. 
Chi l'ha venduto non sa di essere in Europa.

"I ricordi che ognuno di noi porta con sé del proprio esistere sono un patrimonio spesso arricchito e valorizzato dal trascorrere del tempo, soprattutto quando le trasformazioni del modo di vivere ci fanno un po’ rimpiangere il tempo che fu. Personalmente penso che ciò che si è vissuto durante l’infanzia racchiuda una magia, un incantesimo che nessun altro periodo della vita è in grado di offrirci.
E così, attingendo proprio dalla mia infanzia, ritrovo un quartiere di Vallebona, inu Careira, dove sono nata e ho vissuto fino all’età di 12 anni e dove le esperienze non sono state certo tutte positive, ma molti di quei ricordi sono ancora oggi un prezioso bagaglio che porto volentieri con me.
Dedico questo scritto a Remo, u panaté, che da poco ci ha lasciati, perché è stata una presenza importante.
Con il suo pane sono diventata “grande” (…e non solo!), ma la sua figura è stata così ricca di particolari che vale la pena farne un ritratto.
Fischiettava sempre, aveva le ciabatte perennemente infarinate, la canottiera bianca o blu estate e inverno e in quel forno, dall’atmosfera calda e quasi irreale, vedeva avvicendarsi buona parte del paese per cuocere torte verdi, pisciarae, torte dolci e quant’altro.
Il pane, il pane di Remo, come tutto il pane del mondo, aveva le sue particolarità…
I filoni bagnai cun a pumata erano mitici e resteranno nella memoria di molti come uno di quei gusti mai più ritrovati; poi c’erano le rosette con lo spacco in metà, belle gonfie e bianche, i cornetti diventati poi banane, le muneghe e le biove. Ma al martedì e al venerdì pomeriggio, con la riapertura del negozio, c’erano le briosce e i canestrelli che, pur avendo una denominazione abbastanza generica, nella mente di ognuno di noi sono qualcosa di ben preciso. Quante volte andavo a vedere, uscendo di corsa dal magazzino, se Remo aveva già sceso quel ben di dio per la merenda! …e magari dopo una o due volte in cui non trovavo nulla, Palmira mi diceva: “Va’ in po’ a vé in tu furnu si sun prunte…” Ecco, quella familiarità, quella libertà, quella complicità che era innata nella vita del paese rimane per me una delle cose più belle che il vivere in un piccola comunità possa offrire.
A tutte le ore Remo lo si sentiva, anche d’in casa, trafficare nel carugiu. Arrivava con l’ape blu, rigorosamente senza porte e senza telone dietro la schiena, con le bombole che savagiavano da un lato all’altro del cassone, oppure portava i rifornimenti per il negozio.
Scherzava sempre bonariamente, in modo sommesso, e mi ha sempre colpito questo suo essere estroverso ma non chiassoso, direi quasi discreto… Naturalmente dal quadro non può essere dimenticato quanto all’avanguardia fosse il negozio, il primo simbolo di progresso nei confronti degli altri esercizi commerciali esistenti. Il soffitto a giorno con mattoni di vetro, la scala a chiocciola, la disposizione della merce bene in vista sugli scaffali, la vetrina sempre invitante, le luci… insomma, allora esisteva solo la Standa e a me sembrava una miniatura della stessa a Vallebona!
Ringrazio sia lui che Palmira per avermi fatto partecipe di questa bella esperienza, così come molti altri un po’ più vecchi di me aggiungerebbero alla lista anche il servizio da loro gestito delle docce pubbliche. Ah, dimenticavo… Il salame dolce! Cume u l’eira bon…, ma era anche una concessione delle grandi occasioni, perché in quegli anni non era domenica tutti i giorni come adesso e fare un po’ di economia era la regola. Nasceva, sì, la società dei consumi, ma alle spalle c’era ancora vivo il ricordo della penuria e la parola “spreco” era bandita dal vocabolario.
“Remo, ma cousa vö dì cerea?” “Ciau in piemuntese…”  …anche questo l’ho imparato da lui.
E nello stesso modo lo saluto per l’ultima volta. Cerea, Remo…"

P.S.: Remo era il papà dell'attuale vice-sindaco.

giovedì 20 novembre 2014

Il Vito day


Quando un evento si ripete costantemente nel tempo e lo si avvalora sempre più sorge spontaneo dargli un nome e così è nato il "Vito day".

 Vito Taggiasco

Nei paesi si nasce e si cresce promiscui: ci si sente come una grande famiglia. 
La mia generazione, quella degli anni Cinquanta, vide un considerevole uso del forcipe per aiutare le donne nel parto, strumento nato nel 1572 e che è sempre stato oggetto di forti dibattiti. Vito, più di altri che subirono soltanto ferite superficiali, rimase leso in maniera assai grave, riportando problemi di deambulazione, rallentamento e trattenimento della parola, senza che tuttavia gli fossero negate una lucida intelligenza e una buona dose di saggezza.

 Graziella, Pino, Aldo e Vito: la classe del 1956

La pluriclasse era un sistema scolare che rafforzava l'unione tra i bambini: Vito era inserito insieme a noi e lo aiutavamo in tutti i modi possibili, un ruolo che oggi si chiama "sostegno" e che allora non era previsto. Chi finiva per primo di fare le operazioni o i pensierini, sapeva che poteva andarsi a sedere vicino a Vito e aiutarlo.

Marcello, Giorgio, Aldo, Oscar, Jose (il bimbo), Vito, Pino e Nino

Da molti anni, il 19 novembre festeggiamo insieme il suo compleanno: cascasse il mondo, non ce ne importa nulla, per noi è il Vito day. Una cena che ci riunisce in qualità dei più stretti amici d'infanzia, cresciuti nella consapevolezza dei suoi problemi e volendogli naturalmente tanto bene.

Pia e Vito 

Gli piace cantare: durante le cene del Vito day si canta sempre, anche tra una portata e l'altra. La serata è sempre all'insegna dell'allegria e dello stare bene e puntualmente si centra il bersaglio.
Le foto sono del 2012 e riflettono l'atmosfera che si respira ogni anno:

 Aldo, Oscar e Vito

 Vito, Oscar e Nino

 Aldo, Graziella e Vito

La tavolata conta sempre un minimo di 15 persone. Si alternano anche personaggi più giovani o meno giovani, tanto è sicuro che è sempre uno stare insieme speciale. 

 Il regalo dell'anno scorso: il libro su Antonio Rubino

Con buona pace della sottoscritta, che solitamente è incaricata dagli altri di provvedere al regalo, lo scorso anno gli abbiamo regalato il libro che Marco Cassini ha scritto su Antonio Rubino. La maggior parte dei convenuti non sapeva o non ricordava l'autore del Signor Bonaventura, ma Vito invece ne era ben consapevole: suo padre è di Baiardo, paese di origine di Rubino e ne conosce tutta la storia!
La sua condizione, che spesso dimentichiamo durante gli altri giorni dell'anno, ci riporta in questa occasione ad una dimensione dell'umano su cui riflettere. Puntualmente constatiamo che Vito è pulito, non è contaminato come noi. Non si fa trovare impreparato su nessun argomento e le sue risposte hanno quel fondo di verità che diventa una rivelazione anche per noi. 
Il Vito day, oltre che la sua, è anche la nostra festa, perché quello che riceviamo dalla qualità di questo nostro stare assieme è tantissimo. 
Vito c'è.

mercoledì 11 giugno 2014

Il diverso come icona del male


"L'uomo tende a interpretare tutto quanto non rientra nella propria esperienza diretta o nel cerchio rassicurante della tribù come un pericolo, una minaccia anche mortale. Di qui, i suoi atteggiamenti aggressivi, per cui il diverso e l'altro vengono intesi come un nemico potenziale o reale. Un pregiudizio che continua ad alimentare i tanti conflitti che squassano le società contemporanee".


Marco Aime e Emanule Severino, Il diverso come icona del male, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, Quarta di copertina - Introduzione di Ernesto Ferrero


giovedì 6 marzo 2014

Coincidenze

Bologna - Via dell'Indipendenza

Per definizione, Coincidenza è l'accadere simultaneo e fortuito di fatti e circostanze. Da quando Lucio Dalla esordì a suo tempo con la canzone 4 marzo 1943 avevo inevitabilmente notato che quella data coincideva con quella del matrimonio dei miei genitori, anche se era diverso l'anno, ovvero il 1944: tuttavia, in ballo, erano sempre gli stessi numeri 4-3-43 e 4-3-44...

Salumeria bolognese

Lucio nacque a Bologna e mia mamma nella provincia di Bologna. La particolarità da sottolineare sta nel fatto che entrambe le nostre mamme hanno lo stesso nome: si chiamano Iole.

Il fruttivendolo

La prima strofa della canzone recita: "Dice che era un bell'uomo e veniva dal mare..." e mio padre, ligure, era un bell'uomo e veniva dal mare...

I tortellini!

Sono stata poche volte a Bologna, ma l'opportunità, di cui dicevo nel post precedente ha creato un'ulteriore coincidenza: la mattina del 3 marzo sono partita dalla Liguria col treno per recarmi a Bologna, così come lo stesso giorno, settant'anni fa, era partito mio padre per andare a Porretta Terme per sposare mia mamma all'indomani!


Via D'Azeglio, 15 - Bologna
Abitazione di Lucio Dalla

Grazie all'ospitalità dei cugini che ho a Bologna, ho pernottato presso di loro e all'indomani, prima di tornare a casa, sono andata in via D'Azeglio, dove abitava Lucio. La casa non è ancora aperta al pubblico e ne ho soltanto fotografato l'ingresso e, passeggiando, ho ripercorso i suoi luoghi, ho ripensato alle sue canzoni, ho "rivisitato" il suo personaggio: era il giorno del suo compleanno ed ero... 


...sotto casa di Lucio, come il titolo delle molte locandine affisse nella via, che pubblicizzavano la notte bianca a lui dedicata a partire dal tardo pomeriggio.

Piazza Maggiore - Bologna

Io non so esattamente che significato abbiano le coincidenze, forse non ne hanno proprio, se non quello di accomunare eventi distanti tra di loro in una sorta di affinità. Oppure sono un mezzo per sentire un legame più personale, una compartecipazione con qualcuno o con qualcosa che comunque avvalora la propria esistenza e il proprio esserci.
Lasciandomi alle spalle, sotto la pioggia, la sua amata Piazza Maggiore, mi sono incamminata verso la stazione, ringraziando Bologna la dotta, Bologna la grassa, ma soprattutto Bologna la Cara, come il titolo di una delle sue più belle canzoni.

giovedì 9 gennaio 2014

Dell'invecchiare


"I giorni passavano uno in fila all’altro con il loro fastello di cose sempre simili, appena impercettibilmente diverse, come il mio viso. Il tempo lavora così, con sistematica gradualità.
Un invisibile ma implacabile movimento ci usura. La trama dei tessuti si allenta e si riassesta sul telaio delle ossa, e un giorno, senza che ce nessuno ti abbia avvisato, indossi la faccia di tuo padre".  

Margareth Mazzantini, Non ti muovere, Mondadori, Milano, 2001, pag.261